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Le due bambine di vetro, ovvero il coraggio della parresia

Quando ho avuto tra le mani La bambina di vetro, l’ultimo albo di Beatrice Alemagna per Topipittori, ho avuto come un sussulto. Eh sì, perché qualche tempo fa anch’io avevo scritto una fiaba con lo stesso titolo, una fiaba che, per lungo tempo ho mantenuto nascosta: il fatto è che quando scrivi una storia che riflette così da vicino la tua esperienza, può succedere che qualcosa non ti convinca del tutto e senti il bisogno di continuare a meditarla.

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Ora, stringevo tra le mani una storia con lo stesso titolo, raccontato da una delle mie autrici preferite e guardavo un volto così simile a quello che avevo immaginato io: di quale storia si sarebbe trattato?

L’autrice dichiara subito il suo debito verso Gianni Rodari che, in Favole al telefono, aveva raccontato la prodigiosa vicenda di Giacomo di Cristallo, tant’è che «si potrebbe dire che Gisèle, la protagonista di questo libro, sia la sorellina francese di Giacomo (nata a Parigi e mai pubblicata prima d’ora in Italia)». Conoscevo la fiaba di Rodari ma non aveva molto a che fare con la mia principessina di vetro: lei e Giacomo erano così diversi e, poi – mi dicevo – l’ispirazione abitava proprio a casa mia. Ma, dal momento che certi legami letterari sono molto più forti di quel che uno scrittore sia disposto ad ammettere, ho deciso di rileggere la mia fiaba, proprio a partire dall’albo che avevo tra le mani …

Nata completamente di vetro, Gisèle è trasparente e fragile allo stesso tempo ma, più di ogni fragilità fisica, teme e patisce quella emotiva, non potendo sopportare che la gente riesca a sbirciare tra i suoi pensieri: «la gente si arrabbiava con lei, continuamente: “Non riesci a smettere di pensare?”; oppure: “Non ti vergogni di mostrare questi orrori?». Incapace di non farsi scalfire dai giudizi delle persone, a un certo punto Gisèle decide di partire, fuggire, allontanarsi da tutto quanto; finirà, tuttavia, per dover ammettere che non dipende tanto dalla gente, ma che è una condizione legata alla sua unicità.

Mentre sfogliavo le pagine di questo albo che – quale prodigio artistico! – si faceva esso stesso trasparente come vetro, mi tremava la mano: anche per Gisèle – come per la mia principessina – è impossibile riconoscersi simile agli altri bambini. Entrambe sono troppo diverse e non potranno fare nulla per cambiare le cose: potranno solo fare i conti con la loro diversità. Solo che, per un’esigenza biografica prima che narrativa, io avevo scelto di raccontare la vicenda dal punto di vista dei genitori, mentre l’Alemagna mi offriva, adesso, proprio quello della bambina: mentre io ero come paralizzato davanti alla fragilità di quella creatura miracolosa e mi prodigavo per proteggerla a ogni costo, Beatrice mi spingeva a guardare oltre la trasparenza del cristallo, dritto nel cuore di Gisèle, alla radice del suo infinito coraggio, della sua voglia di ridere, giocare, librarsi leggera.

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Gisèle fa un percorso dentro se stessa e, come il suo fratellino putativo, si appella con forza all’esperienza della verità: nella fiaba di Rodari, questo riferimento è addirittura esplicito, allorché nel finale è detto che «la verità è più forte di qualsiasi cosa, più luminoso del giorno, più terribile di un uragano»; proprio in questo sta il senso della vittoria di Giacomo sull’insopportabile tiranno. Dal canto suo, l’Alemagna, pur ribadendo questo insopprimibile bisogno di verità, prova ad accompagnare Gisèle per un altro itinerario, alla fine del quale scopre che essere veri significa rivendicare senza compromessi la propria identità, senza rinunciarvi mai; significa praticare il coraggio della parresia, l’antica pratica filosofica greca consistente nel mantenere la propria condotta di vita sempre aderente al vero.

Secondo il filosofo francese Michel Foucault chi pratica la parresia mette a rischio la propria vita, dal momento che potrebbe urtare la sensibilità del proprio interlocutore, costringendolo a ribattere in maniera aggressiva al pregio cristallino della verità. E qui passa la distanza tra i nostri due personaggi: Giacomo, quasi fosse un novello Socrate, nonostante sia messo in catene, continua a testimoniare e a risplendere; Gisèle, invece, giunta al centro della propria consapevolezza, è finalmente libera di muoversi nel mondo, senza più lasciarsi ferire dai giudizi altrui. La radicalità della sua parresia sa essere autentica e trasparente senza temere alcuna incrinatura: insomma, a suo modo la bambina ha trovato il lieto fine.

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Vi confesso che questo esito mi ha lasciato assai sorpreso, dal momento che anche la mia bambina di vetro trova a modo suo un lieto fine, nonostante l’irrimediabile fragilità: anzi, proprio su questo aspetto ho nel tempo lungamente riflettuto. A dir la verità, ho cambiato più volte il finale della storia, adattandomi di volta in volta ai vari accadimenti che si succedevano nella complicatissima vicenda biografica che mi aveva ispirato. Poi, un giorno mi sono arreso all’unica verità che mi pareva plausibile: che la bambina restasse di vetro ma che restasse pur sempre bambina.

Il vetro potrà incrinarsi, forse anche opacizzarsi, ma la lucentezza dello sguardo (e – per Gisèle – dei pensieri) non potrà mai essere infranta.

B. Alemagna, La bambina di vetro, Topipittori, 2019

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C’era una volta… in un antico regno, un re e una regina che regnavano con giustizia e probità, avendo a cuore le sorti del loro popolo.
Un bel giorno, il loro grande amore fu premiato con la nascita di una figlia. Ma – quale angoscioso mistero! – non si trattava di una bambina come le altre, fatta di carne, ossa e di un cuore pulsante. La principessina era fatta di vetro!
A corte lo stupore fu enorme! La bambina piangeva, si nutriva, agitava le braccine e spalancava le piccole mani proprio come qualunque altro bambino: ma era fatta di limpido vetro, fragilissima. Solo i suoi occhi, di un intenso color nocciola, spiccavano da quell’eterea trasparenza e palpitavano, ridevano, gioivano.
Con il passare degli anni, i suoi genitori erano sempre più preoccupati: la bambina voleva correre, saltare, ballare, giocare con gli altri bambini ma loro, ogni volta con un pretesto diverso, glielo proibivano, per paura che cadesse e si frantumasse senza rimedio.
La sera, nel segreto delle proprie stanze, discutevano su cosa fosse giusto fare, ma non riuscivano a prendere una decisione: si rivolsero, così, al fidato consigliere, uomo severo e autorevole.
«Maestà, la principessina è tanto fragile e voi, che avete a cuore il suo bene, non dovreste ascoltare i suoi capricci». I sovrani decisero così di relegare la figlia in una stanza: tutti gli oggetti pericolosi, pesanti o appuntiti furono distrutti o bruciati, mentre quelli indispensabili furono fasciati con stoffe preziose.
Un giorno, la solitudine della triste bambina fu rotta da un topolino, sbucato da chissà dove: a vederlo zampettare per la stanza, ella si divertì molto e si mise a corrergli dietro, finché il consigliere la fermò.
Fu ordinato a un ingegnere di modificare una di quelle macchine da teatro che servono a calare il dio dall’alto, per risolvere le trame più intricate: la principessina vi fu legata e tenuta ben salda. Non poteva più fare alcun movimento: ciononostante i suoi genitori, in preda all’ansia, non riuscivano a staccarle gli occhi di dosso; decisero, così, di trasferirsi nella sua stessa stanza, delegando le faccende del regno al vecchio consigliere. Smisero addirittura di guardarsi, di parlarsi…
Un giorno in cui il consigliere era assente, da una finestra della stanza entrò un usignolo: i sovrani e la bambina seguirono con stupore quel frusciare d’ali, finché l’uccello si posò sulla trave più alta di quell’assurda macchina e parlò.
«Da tempo non volavo su queste terre, che tutti sanno prospere e ben governate. Mi è sembrato, però, che il favore degli déi le abbia abbandonate».
«Magica creatura – rispose turbata la regina – quel che dici è vero: da troppo tempo gli déi ci hanno condannato a un destino avverso! Guarda tu stesso la nostra unica figlia!».
«Vostre Maestà – intimò l’usignolo – non più a lungo la principessa deve restare legata a quest’orrenda macchina, lei che, sotto il fragile vetro, è vita gioiosa e pulsante. Lasciatela correre, giocare e ridere spensierata con i suoi begli occhi nocciola».
I sovrani obiettarono che avrebbe potuto inciampare, cadere, andare in frantumi. «Ma – osservò l’usignolo – solo così la bambina avrà la possibilità di rivelarsi…». E, senza aspettare altra risposta, volò via.
Il re e la regina si guardarono negli occhi e, dopo lungo tempo, presero a parlarsi: avevano ancora paura ma sapevano che il prodigio non poteva essere ignorato. E così, alla fine, decisero di liberare la figlia: la sostennero per le esili braccia di vetro e la aiutarono a muovere i primi passi. «Portatemi in giardino!», sospirò lei.
Appena furono lì, la principessina allungò le mani tremanti verso il cielo affollato di cose e colori; i genitori la guardarono attraverso il velo di molte lacrime.
Poi l’aria si riempì della sua gioiosa risata e la bambina prese a correre felice per il prato!
Quando il severo consigliere rientrò a palazzo, trasalì incredulo: «Maestà, cosa avete fatto? La principessina può cadere da un momento all’altro. Perché non è legata?». Ma il re e la regina non potevano sentirlo: si erano messi a correre e a saltellare assieme alla figlia, incitandola, battendo le mani, ridendo con lei.
Scoprirono così di poter gioire profondamente, nella certezza di aver preso la decisione giusta.

Poi, successe.

La bambina, nel tentativo di evitare una radice, si spostò di colpo, perdendo l’equilibrio e cadendo di schianto su una pietra: si sentì il tonfo sordo del vetro che si incrinava.
Quando si rialzò, tenendosi la gamba, tutti notarono una piccola crepa sul ginocchio: il vetro, tuttavia, era rimasto compatto. Grida di gioia, sussulti di cuore, il gioco riprende.

Da allora il vetro fu segnato altre volte da tante crepe, ma non rovinò mai: e la principessina non smise più di giocare e di sorridere con i suoi lucenti occhi nocciola.

Articolo e fiaba di Giancarlo Chirico

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La domanda non è mai più grande della risposta

 

Che cosa rende filosofi? Il coraggio di non serbare nel proprio cuore alcuna domanda.

(Arthur Schopenhauer)

 

Quando mi chiedono com’è possibile fare filosofia a partire dagli albi illustrati, sono solito citare a menadito alcuni albi, alcuni titoli – diciamo così – infallibili, ‘esemplari’: in questo elenco non può mancare il capolavoro di Wolf Erlbruch, non tanto perché notissimo e pluripremiato e neppure per le suggestioni derivanti dal titolo, ma proprio per il modo in cui la narrazione si fa carico della ‘grande domanda’ e, dunque, del tentativo – quello sì, autenticamente filosofico – di darvi risposta.

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Una grande domanda sembrerebbe presupporre la necessità di una risposta altrettanto grande, una risposta capace di essere definitiva e risolutiva: sappiamo che non è così, tant’è che la storia della filosofia non rappresenta affatto una mitologia da imparare a memoria e chi se ne occupa sa quanto sia necessario saper argomentare compiutamente il proprio pensiero, per permettere all’interlocutore di comprenderlo e di ribattere. La prospettiva da cui muove Erlbruch è quella di presentare una carrellata di possibili risposte alla “grande domanda”, non già risposte astratte e preconfezionate, ma testimonianze dirette di persone in carne e ossa – e non solo…

Ciascuna di queste risposte è vera dal punto di vista di colui che la fornisce, tant’è che lui ci mette la faccia, parla in prima persona, occupa tutta la pagina e fa appello alla propria specifica esperienza: e a mano a mano che le pagine scorrono, l’attenzione del lettore non è più rivolta alla (grande) domanda cui fa riferimento il titolo, ma proprio alla variegata ricchezza di così tante risposte, tutte convincenti ed efficaci, perché profondamente autentiche.

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Erlbruch non si accontenta di passare in rassegna i vari personaggi interpellati e le loro argomentate risposte: preferisce piuttosto instaurare tra loro una vivace dialettica! Lungo la narrazione si alternano, si succedono, si contrappuntano risposte e protagonisti completamente diversi, in una sorta di staffetta nient’affatto lineare. Nasce quasi il sospetto che la risposta alla ‘grande domanda’ debba essere non semplicemente grande ma addirittura ‘enorme’, radicandosi nella totalità complessiva delle risposte date: non la loro mera sommatoria (che rischia di diluire, se non di disperdere, la cifra specifica dell’apporto di ciascuno) ma proprio l’andamento dialettico del loro alternarsi, confrontarsi, ribaltarsi l’una nell’altra, rilanciarsi l’una a partire dall’altra, e così via. Si succedono le risposte, proprio come si sfogliano le pagine dell’albo, scorrono i volti dei protagonisti e si inseguono le rispettive voci, ciascuna con il proprio timbro, tono e colore, nonché il valore aggiunto dei propri contenuti.

Ma allora questo è un libro destinato a non esaurirsi mai! Letta l’ultima pagina, possiamo ricominciare daccapo (o nel mezzo) e rileggere le risposte, cambiandone l’ordine, passando dall’una all’altra, ritornando indietro, saltando avanti… Da questo punto di vista, abbiamo tra le mani un vero e proprio ‘piccolo manuale di filosofia’: solo che i protagonisti non sono Platone, Spinoza o Hegel ma un pugile, un marinaio o un’anatra… E, a ben vedere, non c’è una sola ragione per la quale il punto di vista di un grande filosofo debba essere per definizione più autorevole di quello di un marinaio, di un pugile o persino di un’anatra, dal momento che ciascuno di noi ha le proprie ragioni – il proprio vissuto, la propria esperienza, le scelte fatte – che, se ben argomentate, rendono autorevole la nostra risposta.

Allora non ci sorprende affatto che l’ultima pagina dell’albo ci chiami letteralmente in causa, affinché anche la nostra voce possa dare il proprio contributo alla ricerca collettiva, nella speranza – perché no? – di imprimervi la svolta decisiva. E forti di questa consapevolezza, non tiriamoci indietro, allora: uniamo la nostra voce a quella degli strambi protagonisti di questo incredibile albo e sentiamoci legittimati a dire la nostra opinione, pronti ad argomentarla e a cambiarla, quando ce lo chiede la nostra esperienza; magari aggiungendo altri fogli all’ultima pagina, tutti quelli di cui avremo bisogno.

E a pensarci bene, potrebbe ben succedere che, nel tempo, arrivi a cambiare addirittura la grande domanda…

Ma, a proposito: qual era la grande domanda?

Anche quando viene chiusa la bocca, la domanda resta aperta.

(Stanisław Jerzy Lec)

Wolf Erlbruch, La grande domanda, Edizioni E/O, 2004

Articolo di Giancarlo Chirico

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Che cos’è un bambino? Ovvero indossare gli occhiali giusti…

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Diciamoci la verità: un albo illustrato il cui titolo già contiene una domanda è di per sé, quasi naturalmente, un’ottima occasione per fare filosofia con i bambini, perché ti viene subito voglia di cercare – non dico la risposta esatta, ma – quello che potrebbe essere il nostro personalissimo contributo alla sua definizione… Forse è un po’ questo il segreto di quello straordinario titolo di Wolf Erlbruch – ovviamente, sto parlando de La grande domanda – dove la domanda tanto promessa nel titolo non compare mai e l’intero albo rappresenta una ricchissima carrellata di possibili (e tutte legittime) risposte.

L’albo di cui scrivo oggi è uno dei miei preferiti, quello da cui prendo le mosse ogni volta che tengo un seminario sulla filosofia con gli albi illustrati: Che cos’è un bambino? di Beatrice Alemagna (Topipittori, 2008).

Per chi si mette a fare filosofia con i bambini, assieme ai bambini, al servizio delle loro grandi domande e pregevoli intuizioni, si tratta di una questione che non può essere trascurata: è ai bambini che ci rivolgiamo, ai loro bisogni che guardiamo, è il loro punto di vista che ci interessa coltivare quando ci poniamo l’ambizioso compito di ‘filoso-fare’ assieme a loro. E, dunque, preliminarmente, che cos’è un bambino?

E qui subito il primo ostacolo, neanche uno dei più banali: come faccio a dirlo io, io che sono un adulto? I bambini lo sanno benissimo cosa sono, lo sanno per esperienza diretta: sono bambini e non hanno bisogno di altre spiegazioni. Ma bambini si nasce, mica si diventa; e, soprattutto, lo si è solo per un po’ di tempo, poi passa… e quando passa, di solito, finisce lì… Per carità, c’è sempre la possibilità di evocare un ricordo, un particolare, un colore, una forte emozione, ma a volte sono solo sprazzi di arcobaleno in un cielo piuttosto ordinario.

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Insomma, è già questo il cuore del dilemma: parliamo di bambini, ma lo facciamo da adulti, cioè senza averne (più) una competenza diretta. I bambini ci appaiono spesso bizzarri, vivono delle loro ingarbugliate ma bellissime originalità, ridono e scherzano secondo un codice indecifrabile, scambiandosi sogni a occhi aperti e slanci appassionati, provando a sottrarsi alle nostre (assurde) aspettative nei loro confronti… Noi spesso li sovrastiamo con le nostre altezze, ma senza raggiungerli veramente, senza entrare in contatto con loro: non siamo neanche disposti ad ammettere la possibilità di poter imparare qualcosa da loro. E continuiamo a domandarci: che cos’è un bambino?

Beatrice Alemagna è il pennello e la penna giusti per farci riflettere in maniera nuova intorno a questa domanda e al nostro bisogno di cercare una risposta: e non è senza importanza se questo albo, nonostante i suoi quasi dodici anni di vita, continui a sollecitarci con un taglio narrativo ancora fresco e originalissimo.

Partiamo dai ritratti: i (tanti) bambini che si susseguono nelle sue pagine non sono bambini comuni, non sono stereotipi, immagini già note di tipologie predefinite; non sembrano bambini veri, lo sono davvero! Balzano fuori dalla pagina e vengono proprio qui, in mezzo a noi. Sono ritratti molto grandi, estremamente ravvicinati: se ci pensate bene, è già un bel punto di vista! A ogni pagina siamo un po’ disorientati, istintivamente cerchiamo la giusta misura rispetto al ritratto, riempiamo di sguardi lo spazio tra noi e lui, tra noi e loro. che-cosc3a8-un-bambino-4È quel che succede a chiunque abbia a che fare con i bambini (una classe, un gruppo di lettura, una comunità di ricerca): passi dal gruppo al singolo, dal coro all’assolo, con uno sguardo forse un po’ strabico, quasi divergente, ma sempre dinamico e puntuale. In verità, è quello che succede in ogni relazione autentica: ci avviciniamo per accostarci all’altro, alle sue ragioni, alla sua particolare prospettiva ma, al contempo, abbiamo bisogno di vedere l’insieme, le connessioni, le relazioni tra il suo punto di vista e il mio. Da qualche parte ho letto che questo albo ci costringe a fare fisicamente l’esercizio ‘dei doppi occhiali’ che i presbiti imparano presto a fare: e a ogni cambio di lente, le informazioni aumentano, i contorni cambiano, le figure si arricchiscono di particolari e l’insieme si dettaglia più in profondità. La trovo proprio una bella immagine.

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Sul testo, invece, dovrei tacere, a meno di non dichiarare subito la mia totale e incondizionata ammirazione per quello che ritengo essere un piccolo saggio filosofico, il testo che qualunque filosofo per bambini vorrebbe aver scritto nella vita! Nessuna facile definizione, nessuna analisi preconfezionata, nessuna sintesi superficiale, lo sguardo costantemente rivolto a cogliere la profondità di ciò che è vero, con semplicità.

Un bambino è una persona piccola. È piccolo solo per un po’, poi diventa grande. Cresce senza neanche farci caso… Un bel giorno cambia”.

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A farla da padrone è sempre un senso di forte disorientamento, proprio come davanti ai ritratti: il fatto è che non riusciamo a capire se l’autrice stia parlando di noi, adulti di oggi, che bambini lo siamo stati ma che di colpo siamo cresciuti, o a noi, bambini di ieri, che cerchiamo oggi il modo migliore per rispondere alla domanda sollevata dall’albo.

Ma esiste veramente questo solco a separare ieri e oggi, adulto e bambino? Il fatto è che ci deve essere qualcosa di più forte del disincanto che ci ha disilluso quando, la prima volta, abbiamo visto i fili attaccati alla marionetta, qualcosa che ci permette ancora oggi, da adulti consapevoli, di ridere a crepapelle davanti a uno spettacolo di marionette, nonostante i fili che sappiamo esserci! Non si tratta di “ritornare” al passato (questo lo lasciamo fare ai nostalgici o alle persone che vivono nei ricordi che non hanno saputo costruire), ma di recuperare oggi la radice profonda del nostro immaginale.

Come faccio a rispondere alla domanda? – ci chiedevamo poco fa. Semplice: io la risposta la conosco, sono stato bambino e da qualche parte il mio immaginale continua a saperlo! La meraviglia, la curiosità, lo stupore e l’incanto continuano ad appartenermi ancora oggi, spetta a me lasciarli parlare: “I bambini che decidono di non crescere, non cresceranno mai. Avranno un mistero dentro di sé. Allora anche da grandi si commuoveranno per le piccole cose: un raggio di sole o un fiocco di neve”.

Si tratta di una voce che vuol essere ascoltata “con gli occhi spalancati”, proprio come un bambino! E che, proprio come i bambini, “per addormentarsi, ha bisogno degli occhi gentili. E di una lucina vicina al letto”.

Strani questi occhiali “doppi”: oltre ad adattare la distanza, ingentiliscono lo sguardo. Anche quello verso sé stessi.

Beatrice Alemagna, Che cos’è un bambino?, Topipittori, 2008

Articolo a cura di Giancarlo Chirico

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Quando la filosofia si infanzia strada facendo…

Quando la filosofia si infanzia strada facendo…

di Giancarlo Chirico

In quasi tre anni di Fiaba-So-fando, con tante attività e laboratori per bambini, ragazzi e genitori, in più occasioni ho trovato nella filosofia un’interessantissima chiave di lettura rispetto a tanti albi illustrati. Per loro natura, gli albi illustrati sono elaborati concettuali e artistici estremamente complessi, in cui i fili di molte narrazioni si intrecciano e spalancano prospettive interpretative molto interessanti; rispetto alle quali il lettore è chiamato a essere assoluto protagonista. L’esperienza cui ci invita l’albo illustrato, quando ben fatto, non è mai un’esperienza di sola lettura, dal momento che ci invita a riflettere oltre il senso stesso della storia, in un orizzonte concettuale che va oltre la pagina scritta e la tavola illustrata. L’albo di cui voglio parlarvi oggi ci aiuta a chiarire proprio questi aspetti.

Si racconta che un giorno Jacqueline Duhême – formatasi alla bottega-laboratorio di Henry Matisse – propose a Gilles Deleuze di realizzare dei dipinti a partire da alcune citazioni tratte dai suoi scritti: l’idea era quella di raccogliere dipinti e citazioni in un albo che potesse rivolgersi ai bambini, nell’ambito di un’operazione editoriale mai tentata prima.duheme-in-matisse-studio-710x1024 Chi conosce Deleuze non si sorprenderà di sapere che il filosofo si entusiasmò subito al progetto: come rivelerà lui stesso, da un lato, quello gli era subito sembrato il modo migliore per rivolgersi efficacemente a Lola, la sua curiosissima nipotina, alle cui domande non riusciva mai a rispondere come si deve; dall’altro lato, immaginava che questo singolarissimo libro avrebbe potuto liberare il proprio pensiero dalla gabbia asfissiante della pagina testuale e dall’eccessivo rigore delle regole logiche.

«Questo libro – scrive Deleuze alla pittrice – mi soddisfa tanto di più che se avessi avuto un’invenzione meravigliosa e io mi riconosco in esso tanto di più quanto di meno ho agito… La scelta dei testi che avete fatto, Martine Laffon e lei, mi sembra molto bella: dei testi molto corti all’apparenza difficili a cui i disegni sono capaci di conferire una chiarezza rigorosa e nello stesso tempo una tenerezza. Ciò non deve affatto avere una sequenza logica, ma una coerenza estetica».

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Si tratta, dunque, di testi non appositamente scritti per questo libro, che vengono liberati dal contesto concettuale in cui erano stati pensati e che, in questo libro, smettono di rivolgersi agli studiosi di filosofia, per affidarsi alla curiosità dei bambini: così facendo, mutano radicalmente la loro semantica e, addirittura, la loro sintattica. Come ha scritto il filosofo Paolo Perticari nella presentazione, «non è questo un libro di filosofia per i bambini. Semmai un libro di bambini per la filosofia. Una filosofia che si infanzia strada facendo. Una filosofia bambina. Qui l’infanzia non ha più bisogno di alcuna connotazione dell’adulto. Poiché l’infanzia è, e basta». E l’infanzia parla con un linguaggio sempre nuovo, anche quando si appropria di parole già dette.

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A ben vedere, questo libro poteva essere soltanto un albo illustrato, un luogo letterario dove si realizzano sempre nuove possibilità combinatorie, in un processo prodigioso che trascende la pagina stampata e si invera sotto lo sguardo creatore del bambino-lettore, anzi, proprio in virtù di questo sguardo. Questo libro, che nasce tra le parole di Deleuze e le illustrazioni della Duhême, tra il nero dell’inchiostro e i colori dei pennelli, prende a vivere in uno spazio più ampio: tra i giochi del bambino, tra le sue espressioni di meraviglia, tra i passi che muove per il mondo, tra le scoperte che continuamente fa. E non a caso Perticari lo definisce «un libro ‘tra’. Tra affezioni e affetti, tra velocità diverse, tra velocità e lentezze. […] L’interessante non si trova mai ai poli terminali di qualunque cosa, ma tra essi. Il “piccolo libro” del grande spazio, che indica come esso possa essere mobile ed espressivo senza la necessaria spiegazione, come la filastrocca che il bambino si racconta nei suoi giochi per scacciare la paura, per muoversi nel buio».

Per un filosofo come Deleuze – per il quale l’atto del pensiero è un atto che coinvolge vista e parola oltre i limiti delle loro possibilità fisiologiche – l’albo illustrato doveva sembrare il mezzo più congeniale per esprimere compiutamente il proprio pensiero filosofico, come evento sensato – cioè “pieno di senso” – a prescindere dai limiti insiti nel singolo codice comunicativo. E dal momento che il senso di un “evento del mondo” non è legato al nostro giudizio sull’evento stesso, ma solo al suo farsi “evento nel mondo”, quest’albo illustrato rappresenta il farsi evento nel mondo del pensiero di Deleuze.

 citazione3E infatti il filosofo francese riconosce alla Duhême il merito – quasi invidiabile – di aver «messo in pittura le parole», ovvero di aver reso percepibile l’impercettibile che lui ha osato solo pensare, dandogli corpo e consistenza, oltre la contingenza sensoriale della vista e della parola.

Quello che abbiamo tra le mani è, dunque, un’avventura meravigliosa che, per la gran parte, resta ancora da esplorare, a partire dai bambini, cui intende rivolgersi: non è semplicemente un viaggio illustrato nella mente di un filosofo – tra i pensieri di Deleuze – ma un evento che, accadendo, ci riguarda e ci appella. E, come scrive Deleuze, «ogni evento è una nebbiosa miriade di gocce».

Gilles Deleuze, Jacqueline Duhême, L’uccello filosofia, Junior 2010.

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I Musicanti di Brema. Che ci fa un totem al centro del villaggio?

Jacob L. Grimm, Wilhelm K. Grimm, Claudia Palmarucci, I Musicanti di Brema, Orecchio acerbo, Roma 2015

di Giancarlo Chirico

Lo ammetto: I musicanti di Brema – assieme a Il gatto con gli stivali – è una delle mie fiabe preferite; probabilmente, l’albo di Orecchio acerbo e le illustrazioni di Claudia Palmarucci, hanno avuto un ruolo determinante per questo mio innamoramento. Ogni volta che mi capita di scorrerne le pagine, sento il profumo umido della terra autunnale, il fitto sottobosco che copre le tracce, la notte senza stelle che avvolge le ombre e mi pare di vedere il caldo luccicore di un camino, là in lontananza. E sento il passo pesante della compagnia, affranta dalla fatica di anni logori e sfatti, che danno ritmo a una marcia stramba, ma fervida di speranza: perché i musicanti ripartono, ogni volta, tutti insieme e canticchiano allegri, nonostante tutto. Brema non può essere lontana.

Non sono propriamente quel che si dice un esteta, ma ritengo che il tratto di Claudia sia fatto apposta per illustrare questa fiaba: sa di terra, di fatica, di palpitazioni troppo a lungo contenute nel cuore piegato dagli affanni, ma sempre pronte a esplodere in un grido, forse stridulo, ma possente e liberatorio. img-20180407-wa0032La scelta di Claudia di umanizzare gli animali è a dir poco sorprendente, richiama alla mente chissà quale letteratura, quali mitologie; senza parlare, poi, della scelta di dare ai briganti le sembianze di una iena, animale ghignante, sempre compiaciuto delle proprie ruberie: semplicemente geniale!

Dalla dialettica tra testo (quello notissimo dei fratelli Grimm) e illustrazioni si aprono distorsioni semantiche che disorientano i bambini e li chiamano subito in causa: lì per lì ti sembrano fattezze innaturali, eppure ti ci rispecchi! Perché i “musicanti” hanno la forma umana, se restano pur sempre animali? perché la storia dice una cosa e l’illustrazione ne racconta un’altra? chi agisce veramente, l’uomo o l’animale?

Perché non potrebbero essere entrambi?”, chiedo io. “Perché non ha senso!”, mi ha risposto una volta un bambino.

E allora troviamolo insieme, questo senso.

Per elaborare in chiave ludica la suggestione filosofica di questa prodigiosa fiaba, ho deciso di ricorrere al concetto di totem: a un certo punto della fiaba, infatti, i musicanti si riuniscono sotto la finestra della casa dei briganti e decidono di intervenire tutti insieme, componendo un vero e proprio totem, mettendosi l’uno sopra l’altro. Ai bambini faccio notare come l’illustrazione di copertina – avendo dato agli animali fattezze umane – è in grado di rafforzare enormemente questo concetto: ciascun musicante, infatti, poggia le proprie mani sulle spalle dell’altro, come segno di fiducia e affidamento. In questa composizione – dallo forza verticale e vertiginosa – mi sembra non nasconda neanche un po’ l’allusione alla simbologia cui ho deciso di far riferimento.

In uno dei tanti incontri che ho avuto con i bambini delle Biblioteche di Roma, S., una bambina di 8 anni di origini nigeriane, ci ha raccontato che nel villaggio della bisnonna – che lei ha visitato proprio la scorsa estate – c’era un totem, posizionato proprio al centro del villaggio: aveva notato che lo si poteva vedere da ogni punto del villaggio, in modo che fosse chiaro a chiunque che si trattava del punto più importante, la piazza dove ci si riunisce, dove la pluralità delle differenze si compone nell’unione comunitaria.

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Solitamente, all’interno del totem sono raccolti animali estremamente diversi tra loro, per caratteristiche, per condizioni di vita, anche per alimentazione: per offrire ai bambini una chiave di letture – tra le molte altre possibili – suggerisco loro di ritrovare in ogni composizione i quattro elementi naturali (terra, aria, acqua, fuoco). La nostra sfida, dunque, diventa quella di associare i quattro musicanti a ciascun elemento naturale, per comprenderne appieno il significato e la forza simbolica. Di per sé, l’associazione non è affatto pacifica: in alcuni casi, i gruppi hanno raggiunto l’unanimità, in altri no. Fare ritorno alla fiaba, in alcuni casi, permette di risolvere alcune situazioni dubbie e di fissare dei particolari risolutivi che, altrimenti, sarebbero passati in secondo piano. In ogni caso, la cosa più interessante è il dialogo che si svolge tra i bambini, nel quale ciascuno porta le motivazioni che gli sembrano più valide per giustificare la propria scelta (nella consapevolezza – come mi è stato detto una volta – che se dici soltanto “a me piace così” non sei affatto divertente…).

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Con una certa facilità i bambini associano il gallo all’aria (anche se, dicono in molti, questo è l’unico gallo che vola veramente in alto: “di solito saltellano, mica volano”). Anche il gatto viene associato con una certa facilità al fuoco: “perché dorme vicino al camino”, ricorda un bambino; “perché ha gli occhi come i tizzoni”, mi suggerisce un altro. Ci posso stare. E il cane? “Il cane alla terra – sostiene un bambino – perché è fedele, è legato alla terra”; mentre qualcun altro lo vorrebbe associare al fuoco “perché morde con rabbia e abbaia e ringhia”; “mi fa venire in mente il colore rosso”, dice un altro.

E l’asino? La maggior parte dei bambini lo associa alla terra (e, d’altronde, diversi elementi della fiaba lo suggeriscono), ma mai sfidare i bambini in arguzia! In un incontro una bambina mi ha detto: “L’asino è l’acqua perché li accoglie tutti!”. Fare filosofia significa aprirsi a nuove possibilità: ecco perché preferisco dare grande attenzione alle “voci fuori dal coro”, a quei bambini che, solitamente, vengono richiamati perché dicono “stupidaggini”, baggianate, argomenti poco condivisibili; e, invece, spesso offrono al dialogo nuovi spunti di riflessione…

Una volta che abbiamo imparato a riconoscere i quattro elementi e ad associarvi un musicante, giunge il momento di costruire il proprio personalissimo totem. Per ciascun elemento propongo ai bambini di scegliere un animale, selezionandolo tra una decina di proposte. Dopo averli colorati, gli animali vanno incollati su un supporto, che nel mio caso è rappresentato dal tubo di cartone dei rotoloni. Il risultato finale è sorprendente!

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Per i bambini il momento della scelta rappresenta una faccenda nient’affatto banale: sono ormai perfettamente consapevoli che il totem dimorerà al centro del villaggio, per cui ci pensano a lungo prima di scegliere, osservando bene le figure proposte e prendendosi tutto il tempo necessario, a volte ritornando sui propri passi e chiedendo di cambiare animale. Associando ogni animale a un elemento e scegliendo per ogni elemento un proprio animale, i bambini raccontano moltissime cose di sé: ricordi, aneddoti buffi, litigate furiose. Esercitiamo l’ascolto attento e il rispetto dei tempi altrui e impariamo che ridere di una persona ti leva tante opportunità.

Ogni volta i bambini si sforzano di isolare nell’animale scelto delle caratteristiche specifiche che vorrebbero per sé o che, per qualche motivo, già si attribuiscono e si riconoscono. A mano a mano che le scelte si fanno più chiare e vengono condivise con il gruppo, nelle nostre mani il totem diventa uno strumento potentissimo, un simbolo capace di parlare al posto nostro e di testimoniare al resto della comunità chi siamo veramente: o, più semplicemente, di permetterci di giocare a esserlo. Costruire un totem come manufatto complesso, fatto di animali diversi, con caratteristiche anche sorprendentemente lontane (nello stesso totem abitano insieme il coniglio e la tigre, la pigrizia della balena o lo scatto dell’antilope, senza alcuna contraddizione per il bambino che li sceglie), richiede a tutti un forte investimento emotivo, rispetto al quale i bambini non si sottraggono mai.

Alla fine, il senso più autentico di questa straordinaria fiaba l’abbiamo trovato proprio nel totem, che tiene insieme – in una geometria vertiginosa e complessa – la complessità che ciascuno di noi è e di cui diventiamo, in questo modo, profondamente consapevoli.