Le due bambine di vetro, ovvero il coraggio della parresia

Quando ho avuto tra le mani La bambina di vetro, l’ultimo albo di Beatrice Alemagna per Topipittori, ho avuto come un sussulto. Eh sì, perché qualche tempo fa anch’io avevo scritto una fiaba con lo stesso titolo, una fiaba che, per lungo tempo ho mantenuto nascosta: il fatto è che quando scrivi una storia che riflette così da vicino la tua esperienza, può succedere che qualcosa non ti convinca del tutto e senti il bisogno di continuare a meditarla.

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Ora, stringevo tra le mani una storia con lo stesso titolo, raccontato da una delle mie autrici preferite e guardavo un volto così simile a quello che avevo immaginato io: di quale storia si sarebbe trattato?

L’autrice dichiara subito il suo debito verso Gianni Rodari che, in Favole al telefono, aveva raccontato la prodigiosa vicenda di Giacomo di Cristallo, tant’è che «si potrebbe dire che Gisèle, la protagonista di questo libro, sia la sorellina francese di Giacomo (nata a Parigi e mai pubblicata prima d’ora in Italia)». Conoscevo la fiaba di Rodari ma non aveva molto a che fare con la mia principessina di vetro: lei e Giacomo erano così diversi e, poi – mi dicevo – l’ispirazione abitava proprio a casa mia. Ma, dal momento che certi legami letterari sono molto più forti di quel che uno scrittore sia disposto ad ammettere, ho deciso di rileggere la mia fiaba, proprio a partire dall’albo che avevo tra le mani …

Nata completamente di vetro, Gisèle è trasparente e fragile allo stesso tempo ma, più di ogni fragilità fisica, teme e patisce quella emotiva, non potendo sopportare che la gente riesca a sbirciare tra i suoi pensieri: «la gente si arrabbiava con lei, continuamente: “Non riesci a smettere di pensare?”; oppure: “Non ti vergogni di mostrare questi orrori?». Incapace di non farsi scalfire dai giudizi delle persone, a un certo punto Gisèle decide di partire, fuggire, allontanarsi da tutto quanto; finirà, tuttavia, per dover ammettere che non dipende tanto dalla gente, ma che è una condizione legata alla sua unicità.

Mentre sfogliavo le pagine di questo albo che – quale prodigio artistico! – si faceva esso stesso trasparente come vetro, mi tremava la mano: anche per Gisèle – come per la mia principessina – è impossibile riconoscersi simile agli altri bambini. Entrambe sono troppo diverse e non potranno fare nulla per cambiare le cose: potranno solo fare i conti con la loro diversità. Solo che, per un’esigenza biografica prima che narrativa, io avevo scelto di raccontare la vicenda dal punto di vista dei genitori, mentre l’Alemagna mi offriva, adesso, proprio quello della bambina: mentre io ero come paralizzato davanti alla fragilità di quella creatura miracolosa e mi prodigavo per proteggerla a ogni costo, Beatrice mi spingeva a guardare oltre la trasparenza del cristallo, dritto nel cuore di Gisèle, alla radice del suo infinito coraggio, della sua voglia di ridere, giocare, librarsi leggera.

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Gisèle fa un percorso dentro se stessa e, come il suo fratellino putativo, si appella con forza all’esperienza della verità: nella fiaba di Rodari, questo riferimento è addirittura esplicito, allorché nel finale è detto che «la verità è più forte di qualsiasi cosa, più luminoso del giorno, più terribile di un uragano»; proprio in questo sta il senso della vittoria di Giacomo sull’insopportabile tiranno. Dal canto suo, l’Alemagna, pur ribadendo questo insopprimibile bisogno di verità, prova ad accompagnare Gisèle per un altro itinerario, alla fine del quale scopre che essere veri significa rivendicare senza compromessi la propria identità, senza rinunciarvi mai; significa praticare il coraggio della parresia, l’antica pratica filosofica greca consistente nel mantenere la propria condotta di vita sempre aderente al vero.

Secondo il filosofo francese Michel Foucault chi pratica la parresia mette a rischio la propria vita, dal momento che potrebbe urtare la sensibilità del proprio interlocutore, costringendolo a ribattere in maniera aggressiva al pregio cristallino della verità. E qui passa la distanza tra i nostri due personaggi: Giacomo, quasi fosse un novello Socrate, nonostante sia messo in catene, continua a testimoniare e a risplendere; Gisèle, invece, giunta al centro della propria consapevolezza, è finalmente libera di muoversi nel mondo, senza più lasciarsi ferire dai giudizi altrui. La radicalità della sua parresia sa essere autentica e trasparente senza temere alcuna incrinatura: insomma, a suo modo la bambina ha trovato il lieto fine.

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Vi confesso che questo esito mi ha lasciato assai sorpreso, dal momento che anche la mia bambina di vetro trova a modo suo un lieto fine, nonostante l’irrimediabile fragilità: anzi, proprio su questo aspetto ho nel tempo lungamente riflettuto. A dir la verità, ho cambiato più volte il finale della storia, adattandomi di volta in volta ai vari accadimenti che si succedevano nella complicatissima vicenda biografica che mi aveva ispirato. Poi, un giorno mi sono arreso all’unica verità che mi pareva plausibile: che la bambina restasse di vetro ma che restasse pur sempre bambina.

Il vetro potrà incrinarsi, forse anche opacizzarsi, ma la lucentezza dello sguardo (e – per Gisèle – dei pensieri) non potrà mai essere infranta.

B. Alemagna, La bambina di vetro, Topipittori, 2019

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C’era una volta… in un antico regno, un re e una regina che regnavano con giustizia e probità, avendo a cuore le sorti del loro popolo.
Un bel giorno, il loro grande amore fu premiato con la nascita di una figlia. Ma – quale angoscioso mistero! – non si trattava di una bambina come le altre, fatta di carne, ossa e di un cuore pulsante. La principessina era fatta di vetro!
A corte lo stupore fu enorme! La bambina piangeva, si nutriva, agitava le braccine e spalancava le piccole mani proprio come qualunque altro bambino: ma era fatta di limpido vetro, fragilissima. Solo i suoi occhi, di un intenso color nocciola, spiccavano da quell’eterea trasparenza e palpitavano, ridevano, gioivano.
Con il passare degli anni, i suoi genitori erano sempre più preoccupati: la bambina voleva correre, saltare, ballare, giocare con gli altri bambini ma loro, ogni volta con un pretesto diverso, glielo proibivano, per paura che cadesse e si frantumasse senza rimedio.
La sera, nel segreto delle proprie stanze, discutevano su cosa fosse giusto fare, ma non riuscivano a prendere una decisione: si rivolsero, così, al fidato consigliere, uomo severo e autorevole.
«Maestà, la principessina è tanto fragile e voi, che avete a cuore il suo bene, non dovreste ascoltare i suoi capricci». I sovrani decisero così di relegare la figlia in una stanza: tutti gli oggetti pericolosi, pesanti o appuntiti furono distrutti o bruciati, mentre quelli indispensabili furono fasciati con stoffe preziose.
Un giorno, la solitudine della triste bambina fu rotta da un topolino, sbucato da chissà dove: a vederlo zampettare per la stanza, ella si divertì molto e si mise a corrergli dietro, finché il consigliere la fermò.
Fu ordinato a un ingegnere di modificare una di quelle macchine da teatro che servono a calare il dio dall’alto, per risolvere le trame più intricate: la principessina vi fu legata e tenuta ben salda. Non poteva più fare alcun movimento: ciononostante i suoi genitori, in preda all’ansia, non riuscivano a staccarle gli occhi di dosso; decisero, così, di trasferirsi nella sua stessa stanza, delegando le faccende del regno al vecchio consigliere. Smisero addirittura di guardarsi, di parlarsi…
Un giorno in cui il consigliere era assente, da una finestra della stanza entrò un usignolo: i sovrani e la bambina seguirono con stupore quel frusciare d’ali, finché l’uccello si posò sulla trave più alta di quell’assurda macchina e parlò.
«Da tempo non volavo su queste terre, che tutti sanno prospere e ben governate. Mi è sembrato, però, che il favore degli déi le abbia abbandonate».
«Magica creatura – rispose turbata la regina – quel che dici è vero: da troppo tempo gli déi ci hanno condannato a un destino avverso! Guarda tu stesso la nostra unica figlia!».
«Vostre Maestà – intimò l’usignolo – non più a lungo la principessa deve restare legata a quest’orrenda macchina, lei che, sotto il fragile vetro, è vita gioiosa e pulsante. Lasciatela correre, giocare e ridere spensierata con i suoi begli occhi nocciola».
I sovrani obiettarono che avrebbe potuto inciampare, cadere, andare in frantumi. «Ma – osservò l’usignolo – solo così la bambina avrà la possibilità di rivelarsi…». E, senza aspettare altra risposta, volò via.
Il re e la regina si guardarono negli occhi e, dopo lungo tempo, presero a parlarsi: avevano ancora paura ma sapevano che il prodigio non poteva essere ignorato. E così, alla fine, decisero di liberare la figlia: la sostennero per le esili braccia di vetro e la aiutarono a muovere i primi passi. «Portatemi in giardino!», sospirò lei.
Appena furono lì, la principessina allungò le mani tremanti verso il cielo affollato di cose e colori; i genitori la guardarono attraverso il velo di molte lacrime.
Poi l’aria si riempì della sua gioiosa risata e la bambina prese a correre felice per il prato!
Quando il severo consigliere rientrò a palazzo, trasalì incredulo: «Maestà, cosa avete fatto? La principessina può cadere da un momento all’altro. Perché non è legata?». Ma il re e la regina non potevano sentirlo: si erano messi a correre e a saltellare assieme alla figlia, incitandola, battendo le mani, ridendo con lei.
Scoprirono così di poter gioire profondamente, nella certezza di aver preso la decisione giusta.

Poi, successe.

La bambina, nel tentativo di evitare una radice, si spostò di colpo, perdendo l’equilibrio e cadendo di schianto su una pietra: si sentì il tonfo sordo del vetro che si incrinava.
Quando si rialzò, tenendosi la gamba, tutti notarono una piccola crepa sul ginocchio: il vetro, tuttavia, era rimasto compatto. Grida di gioia, sussulti di cuore, il gioco riprende.

Da allora il vetro fu segnato altre volte da tante crepe, ma non rovinò mai: e la principessina non smise più di giocare e di sorridere con i suoi lucenti occhi nocciola.

Articolo e fiaba di Giancarlo Chirico