Categorie
Articoli

Bruno Schulz, ovvero l’enigma della sparizione

Bruno Schulz, ovvero l’enigma della sparizione

di Giancarlo Chirico

“… mi sembra che il genere d’arte che mi sta a cuore, sia appunto la regressione, l’infanzia reintegrata. Se si potesse riportare indietro lo sviluppo, raggiungere di nuovo l’infanzia per una qualche via circolare, possederne ancora la pienezza e l’immensità, sarebbe l’adempiersi dell’“epoca geniale”, dei “tempi messianici”, che ogni mitologia ci ha promesso e giurato. Il mio ideale è “maturare” verso l’infanzia. Solo questo sarebbe un’autentica maturità”.

(Bruno Schulz in una lettera ad A. Plesniewicz)

immagine-1-schulz

Se ci limitassimo a seguire le indicazioni dei programmi scolastici, a Bruno Schulz – pittore e scrittore ebreo polacco, nato a Drohobyč, in Galizia, nel 1892 – nella migliore delle ipotesi andrebbe dedicato poco più di un paragrafo: d’altronde, è difficile spiegarsi come uno scrittore che ha lasciato appena qualche centinaio di pagine (due raccolte di racconti, una traduzione e qualche epistola) possa rappresentare un riferimento irrinunciabile per tanti altri, assai più noti e affermati. Eppure, nel 1970 Italo Calvino – tanto per citarne uno – salutò con entusiasmo l’edizione italiana de Le botteghe color cannella, nella cui introduzione Angelo Maria Ripellino tesseva addirittura un paragone tra Schulz e Kafka: paragone nient’affatto azzardato se il Premio Nobel Isaac B. Singer confessò a Philip Roth di considerare l’autore polacco superiore a quello ceco.

Ma chi era veramente Bruno Schulz, quest’ombra inquieta e bizzarra che ha attraversato così silenziosamente gli anni più bui e decadenti del secolo scorso? Come ha fatto e cosa ha scritto per impressionare in maniera tanto profonda autori come Grossman, Roth, Ficowski e la Ozick, ma anche registi come Tadeusz Kantor? È possibile che sia riuscito a comprendere così a fondo la natura umana pur senza essersi quasi mai mosso dalla nativa Galizia?

Trovo affascinante che la ricerca delle risposte a queste domande possa prendere le mosse da un albo illustrato e dalla scelta di un editore – Orecchio acerbo – di puntare su una storia a dir poco conturbante, scritta da un’autrice fortemente ispirata e, a quei tempi, quasi esordiente (la messinese Nadia Terranova) e illustrata magistralmente dalla geniale Ofra Amit: perché, quando si tratta di albi illustrati, è molto facile che la storia prenda svolte inattese e si intrecci con tante altre storie, in un ordito ricco e vivace come solo la realtà sa essere.

Pensiamo a come viene raccontato il rapporto che Bruno ha con il padre, maestro mutaforma, da cui apprende i segreti della sconfinata immaginazione: si parte dalla prospettiva di un bambino timido e quasi impacciato, con la testa un po’ grossa, e si finisce per scovare una traccia indelebile della poetica di Schulz, dove non esistono forme precostituite e la materia si apre al fantastico e alla potenza della parola creatrice.schermata-2014-02-09-alle-12-13-52

Di per sé – sostiene il padre di Bruno in un racconto – “la materia è dotata di una fecondità senza fine, di un’inesauribile forza vitale e al tempo stesso di un seducente potere di tentazione che ci spinge a creare. Nelle profondità della materia si delineano indistinti sorrisi, sorgono contrasti, si affollano abbozzi di forme”. E ciascuno di noi ha la possibilità di liberare ‘sorrisi’, ‘contrasti’ e ‘forme’, imprimendoli nella materia con la forza martellante della propria fantasia: è quel che la parola fa da sempre, consentendoci di dare senso alla realtà e di rielaborare la complessità del mondo, senza semplificarla ma, al contrario, amplificandola lungo l’asse del nostro favoleggiare; senza perdersi, ma ritrovandosi.

È una rivelazione sorprendente! Noi crediamo che esista solo la realtà, che non c’è niente oltre le cose che ci circondano e che riempiono la nostra esistenza – quasi ottundono i nostri sensi – e, invece, scopriamo che è il contrario, che esiste solo il nostro fantasticare! Siamo noi a decidere cosa fare della realtà, a scegliere la storia che vogliamo vivere e raccontare, imprimendola nella materia del tutto-possibile: non è straordinario che tutto questo giunga a noi attraverso un albo illustrato?

Ma la vicenda di Bruno ha molte altre cose da raccontarci, a partire dall’aspetto forse più conturbante di questo padre-demiurgo, ovvero le sue lunghe sparizioni: “in giacca e cravatta dietro al bancone, mentre discuteva con i commessi e i clienti, poteva essere scambiato per un commerciante irreprensibile, ma poi bastavano un dettaglio sopito o una curiosità imprevista perché abbandonasse di nuovo la noia quotidiana. E Bruno tornava a fare i conti con un’altra sparizione”.

Finché non si compie la sparizione più assurda di tutte, la sua morte. E la Terranova sancisce: “Niente. Nulla. Il vuoto”.

 Ma a saper guardare, anche in questo caso ci aspetta una rivelazione sorprendente: la sparizione non è il dominio della negazione, l’eliminazione di quel che c’è e il suo confinamento nella regione della nientificazione, verso quel che ‘non è più’. Si tratta, piuttosto, di un altro aspetto della forza creatrice della fantasia, il contromovimento del diaframma che ci permette di riempire di aria i polmoni, prima di liberare la voce, il dominio della noia, l’ora vuota di certi pomeriggi di estate, prima che si popolino dei giochi più divertenti. E Nadia, appassionata studiosa dell’opera di Schulz, ce lo racconta con assoluta maestria, riuscendo a dare una forma nuova e coraggiosa al triste epilogo di questa vicenda.

ofra-amit-illustration-from-bruno-il-bambino-che-imparo-a-volare-2013Come noto, quando la Germania nazista occupò la Galizia, anche qui gli ebrei furono confinati nei ghetti. Per gli abitanti di Drohobyč le cose si mettono subito male: la gente comincia a ‘sparire’, a causa delle crudeli e arbitrarie uccisioni eseguite da gerarchi folli e inebriati di potere. “Niente. Nulla. Il vuoto”. Anche Schulz si trova in grossa difficoltà, finché non trova lavoro e protezione presso Felix Landau, ufficiale della Gestapo, che ne apprezza le doti artistiche: eppure, la fine giunge inesorabile e Bruno rimane barbaramente ucciso in un sanguinoso giovedì di novembre, colpito a freddo, da un ufficiale delle SS, pare per una rivalità personale con il suo protettore.

Ma ecco il colpo di scena: “il cappotto di Bruno si afflosciò per terra. Ma dentro non c’era più nessuno. L’ufficiale non poteva credere ai suoi occhi: dov’era finito quel piccolo ebreo dalla testa grossa? Scatenò gli scagnozzi sulle sue tracce. Niente. Nulla. Il vuoto”.

Quelle parole che per anni avevano rappresentato una condanna di vuoto e solitudine, riescono ora a imprimere nella storia un finale diverso da quello che ci saremmo aspettati e a sovvertire l’ordine dei fatti, sprigionando l’incanto autentico delle formule magiche: Bruno ha imparato l’ultimo segreto del padre, quello della sparizione, che non vuole essere fine a se stessa ma rappresentare un maestoso prologo per tutte le apparizioni successive.

La volta precedente, quando il padre era sparito per sempre, Bruno – ancora ragazzino – “frugò e frugò dentro la testa finché trovò quello che gli serviva: una matita. Sparsi sul pavimento rimasero molti ricordi e qualche foglio bianco”. Adesso che a sparire è lui, è finalmente pronto a nuove apparizioni, attraverso i suoi disegni e i racconti, le lettere e le tante suggestioni letterarie e artistiche! Fino a quella più clamorosa, ovvero il fortunoso rinvenimento di uno straordinario ciclo di affreschi – ispirato alle fiabe dei Grimm – commissionato da Landau, per abbellire la stanza dei figli nella casa di Drohobyč requisita come abitazione: era il 2001.

Quando da bambini qualcosa spariva eravamo pronti a cercarla ovunque, anche scrutando gli angoli più nascosti del cielo: crescendo, credo che abbiamo finito per dimenticare il segreto di questo sguardo indagatore di miti. Ma con Bruno ora sappiamo che non è mai troppo tardi per ricordarlo…

Lui lo chiama “maturare verso l’infanzia”: in verità, è il segreto di chi sa volare!

bruno

Categorie
Articoli Sognalibri

Quando la filosofia si infanzia strada facendo…

Quando la filosofia si infanzia strada facendo…

di Giancarlo Chirico

In quasi tre anni di Fiaba-So-fando, con tante attività e laboratori per bambini, ragazzi e genitori, in più occasioni ho trovato nella filosofia un’interessantissima chiave di lettura rispetto a tanti albi illustrati. Per loro natura, gli albi illustrati sono elaborati concettuali e artistici estremamente complessi, in cui i fili di molte narrazioni si intrecciano e spalancano prospettive interpretative molto interessanti; rispetto alle quali il lettore è chiamato a essere assoluto protagonista. L’esperienza cui ci invita l’albo illustrato, quando ben fatto, non è mai un’esperienza di sola lettura, dal momento che ci invita a riflettere oltre il senso stesso della storia, in un orizzonte concettuale che va oltre la pagina scritta e la tavola illustrata. L’albo di cui voglio parlarvi oggi ci aiuta a chiarire proprio questi aspetti.

Si racconta che un giorno Jacqueline Duhême – formatasi alla bottega-laboratorio di Henry Matisse – propose a Gilles Deleuze di realizzare dei dipinti a partire da alcune citazioni tratte dai suoi scritti: l’idea era quella di raccogliere dipinti e citazioni in un albo che potesse rivolgersi ai bambini, nell’ambito di un’operazione editoriale mai tentata prima.duheme-in-matisse-studio-710x1024 Chi conosce Deleuze non si sorprenderà di sapere che il filosofo si entusiasmò subito al progetto: come rivelerà lui stesso, da un lato, quello gli era subito sembrato il modo migliore per rivolgersi efficacemente a Lola, la sua curiosissima nipotina, alle cui domande non riusciva mai a rispondere come si deve; dall’altro lato, immaginava che questo singolarissimo libro avrebbe potuto liberare il proprio pensiero dalla gabbia asfissiante della pagina testuale e dall’eccessivo rigore delle regole logiche.

«Questo libro – scrive Deleuze alla pittrice – mi soddisfa tanto di più che se avessi avuto un’invenzione meravigliosa e io mi riconosco in esso tanto di più quanto di meno ho agito… La scelta dei testi che avete fatto, Martine Laffon e lei, mi sembra molto bella: dei testi molto corti all’apparenza difficili a cui i disegni sono capaci di conferire una chiarezza rigorosa e nello stesso tempo una tenerezza. Ciò non deve affatto avere una sequenza logica, ma una coerenza estetica».

citazione-1

Si tratta, dunque, di testi non appositamente scritti per questo libro, che vengono liberati dal contesto concettuale in cui erano stati pensati e che, in questo libro, smettono di rivolgersi agli studiosi di filosofia, per affidarsi alla curiosità dei bambini: così facendo, mutano radicalmente la loro semantica e, addirittura, la loro sintattica. Come ha scritto il filosofo Paolo Perticari nella presentazione, «non è questo un libro di filosofia per i bambini. Semmai un libro di bambini per la filosofia. Una filosofia che si infanzia strada facendo. Una filosofia bambina. Qui l’infanzia non ha più bisogno di alcuna connotazione dell’adulto. Poiché l’infanzia è, e basta». E l’infanzia parla con un linguaggio sempre nuovo, anche quando si appropria di parole già dette.

citazione2

A ben vedere, questo libro poteva essere soltanto un albo illustrato, un luogo letterario dove si realizzano sempre nuove possibilità combinatorie, in un processo prodigioso che trascende la pagina stampata e si invera sotto lo sguardo creatore del bambino-lettore, anzi, proprio in virtù di questo sguardo. Questo libro, che nasce tra le parole di Deleuze e le illustrazioni della Duhême, tra il nero dell’inchiostro e i colori dei pennelli, prende a vivere in uno spazio più ampio: tra i giochi del bambino, tra le sue espressioni di meraviglia, tra i passi che muove per il mondo, tra le scoperte che continuamente fa. E non a caso Perticari lo definisce «un libro ‘tra’. Tra affezioni e affetti, tra velocità diverse, tra velocità e lentezze. […] L’interessante non si trova mai ai poli terminali di qualunque cosa, ma tra essi. Il “piccolo libro” del grande spazio, che indica come esso possa essere mobile ed espressivo senza la necessaria spiegazione, come la filastrocca che il bambino si racconta nei suoi giochi per scacciare la paura, per muoversi nel buio».

Per un filosofo come Deleuze – per il quale l’atto del pensiero è un atto che coinvolge vista e parola oltre i limiti delle loro possibilità fisiologiche – l’albo illustrato doveva sembrare il mezzo più congeniale per esprimere compiutamente il proprio pensiero filosofico, come evento sensato – cioè “pieno di senso” – a prescindere dai limiti insiti nel singolo codice comunicativo. E dal momento che il senso di un “evento del mondo” non è legato al nostro giudizio sull’evento stesso, ma solo al suo farsi “evento nel mondo”, quest’albo illustrato rappresenta il farsi evento nel mondo del pensiero di Deleuze.

 citazione3E infatti il filosofo francese riconosce alla Duhême il merito – quasi invidiabile – di aver «messo in pittura le parole», ovvero di aver reso percepibile l’impercettibile che lui ha osato solo pensare, dandogli corpo e consistenza, oltre la contingenza sensoriale della vista e della parola.

Quello che abbiamo tra le mani è, dunque, un’avventura meravigliosa che, per la gran parte, resta ancora da esplorare, a partire dai bambini, cui intende rivolgersi: non è semplicemente un viaggio illustrato nella mente di un filosofo – tra i pensieri di Deleuze – ma un evento che, accadendo, ci riguarda e ci appella. E, come scrive Deleuze, «ogni evento è una nebbiosa miriade di gocce».

Gilles Deleuze, Jacqueline Duhême, L’uccello filosofia, Junior 2010.

copertina

 

 

Categorie
Articoli Sognalibri

I Musicanti di Brema. Che ci fa un totem al centro del villaggio?

Jacob L. Grimm, Wilhelm K. Grimm, Claudia Palmarucci, I Musicanti di Brema, Orecchio acerbo, Roma 2015

di Giancarlo Chirico

Lo ammetto: I musicanti di Brema – assieme a Il gatto con gli stivali – è una delle mie fiabe preferite; probabilmente, l’albo di Orecchio acerbo e le illustrazioni di Claudia Palmarucci, hanno avuto un ruolo determinante per questo mio innamoramento. Ogni volta che mi capita di scorrerne le pagine, sento il profumo umido della terra autunnale, il fitto sottobosco che copre le tracce, la notte senza stelle che avvolge le ombre e mi pare di vedere il caldo luccicore di un camino, là in lontananza. E sento il passo pesante della compagnia, affranta dalla fatica di anni logori e sfatti, che danno ritmo a una marcia stramba, ma fervida di speranza: perché i musicanti ripartono, ogni volta, tutti insieme e canticchiano allegri, nonostante tutto. Brema non può essere lontana.

Non sono propriamente quel che si dice un esteta, ma ritengo che il tratto di Claudia sia fatto apposta per illustrare questa fiaba: sa di terra, di fatica, di palpitazioni troppo a lungo contenute nel cuore piegato dagli affanni, ma sempre pronte a esplodere in un grido, forse stridulo, ma possente e liberatorio. img-20180407-wa0032La scelta di Claudia di umanizzare gli animali è a dir poco sorprendente, richiama alla mente chissà quale letteratura, quali mitologie; senza parlare, poi, della scelta di dare ai briganti le sembianze di una iena, animale ghignante, sempre compiaciuto delle proprie ruberie: semplicemente geniale!

Dalla dialettica tra testo (quello notissimo dei fratelli Grimm) e illustrazioni si aprono distorsioni semantiche che disorientano i bambini e li chiamano subito in causa: lì per lì ti sembrano fattezze innaturali, eppure ti ci rispecchi! Perché i “musicanti” hanno la forma umana, se restano pur sempre animali? perché la storia dice una cosa e l’illustrazione ne racconta un’altra? chi agisce veramente, l’uomo o l’animale?

Perché non potrebbero essere entrambi?”, chiedo io. “Perché non ha senso!”, mi ha risposto una volta un bambino.

E allora troviamolo insieme, questo senso.

Per elaborare in chiave ludica la suggestione filosofica di questa prodigiosa fiaba, ho deciso di ricorrere al concetto di totem: a un certo punto della fiaba, infatti, i musicanti si riuniscono sotto la finestra della casa dei briganti e decidono di intervenire tutti insieme, componendo un vero e proprio totem, mettendosi l’uno sopra l’altro. Ai bambini faccio notare come l’illustrazione di copertina – avendo dato agli animali fattezze umane – è in grado di rafforzare enormemente questo concetto: ciascun musicante, infatti, poggia le proprie mani sulle spalle dell’altro, come segno di fiducia e affidamento. In questa composizione – dallo forza verticale e vertiginosa – mi sembra non nasconda neanche un po’ l’allusione alla simbologia cui ho deciso di far riferimento.

In uno dei tanti incontri che ho avuto con i bambini delle Biblioteche di Roma, S., una bambina di 8 anni di origini nigeriane, ci ha raccontato che nel villaggio della bisnonna – che lei ha visitato proprio la scorsa estate – c’era un totem, posizionato proprio al centro del villaggio: aveva notato che lo si poteva vedere da ogni punto del villaggio, in modo che fosse chiaro a chiunque che si trattava del punto più importante, la piazza dove ci si riunisce, dove la pluralità delle differenze si compone nell’unione comunitaria.

74643686_1346244748886287_4149187103722307584_o

Solitamente, all’interno del totem sono raccolti animali estremamente diversi tra loro, per caratteristiche, per condizioni di vita, anche per alimentazione: per offrire ai bambini una chiave di letture – tra le molte altre possibili – suggerisco loro di ritrovare in ogni composizione i quattro elementi naturali (terra, aria, acqua, fuoco). La nostra sfida, dunque, diventa quella di associare i quattro musicanti a ciascun elemento naturale, per comprenderne appieno il significato e la forza simbolica. Di per sé, l’associazione non è affatto pacifica: in alcuni casi, i gruppi hanno raggiunto l’unanimità, in altri no. Fare ritorno alla fiaba, in alcuni casi, permette di risolvere alcune situazioni dubbie e di fissare dei particolari risolutivi che, altrimenti, sarebbero passati in secondo piano. In ogni caso, la cosa più interessante è il dialogo che si svolge tra i bambini, nel quale ciascuno porta le motivazioni che gli sembrano più valide per giustificare la propria scelta (nella consapevolezza – come mi è stato detto una volta – che se dici soltanto “a me piace così” non sei affatto divertente…).

img-20180530-wa0003

Con una certa facilità i bambini associano il gallo all’aria (anche se, dicono in molti, questo è l’unico gallo che vola veramente in alto: “di solito saltellano, mica volano”). Anche il gatto viene associato con una certa facilità al fuoco: “perché dorme vicino al camino”, ricorda un bambino; “perché ha gli occhi come i tizzoni”, mi suggerisce un altro. Ci posso stare. E il cane? “Il cane alla terra – sostiene un bambino – perché è fedele, è legato alla terra”; mentre qualcun altro lo vorrebbe associare al fuoco “perché morde con rabbia e abbaia e ringhia”; “mi fa venire in mente il colore rosso”, dice un altro.

E l’asino? La maggior parte dei bambini lo associa alla terra (e, d’altronde, diversi elementi della fiaba lo suggeriscono), ma mai sfidare i bambini in arguzia! In un incontro una bambina mi ha detto: “L’asino è l’acqua perché li accoglie tutti!”. Fare filosofia significa aprirsi a nuove possibilità: ecco perché preferisco dare grande attenzione alle “voci fuori dal coro”, a quei bambini che, solitamente, vengono richiamati perché dicono “stupidaggini”, baggianate, argomenti poco condivisibili; e, invece, spesso offrono al dialogo nuovi spunti di riflessione…

Una volta che abbiamo imparato a riconoscere i quattro elementi e ad associarvi un musicante, giunge il momento di costruire il proprio personalissimo totem. Per ciascun elemento propongo ai bambini di scegliere un animale, selezionandolo tra una decina di proposte. Dopo averli colorati, gli animali vanno incollati su un supporto, che nel mio caso è rappresentato dal tubo di cartone dei rotoloni. Il risultato finale è sorprendente!

img-20180407-wa0039

Per i bambini il momento della scelta rappresenta una faccenda nient’affatto banale: sono ormai perfettamente consapevoli che il totem dimorerà al centro del villaggio, per cui ci pensano a lungo prima di scegliere, osservando bene le figure proposte e prendendosi tutto il tempo necessario, a volte ritornando sui propri passi e chiedendo di cambiare animale. Associando ogni animale a un elemento e scegliendo per ogni elemento un proprio animale, i bambini raccontano moltissime cose di sé: ricordi, aneddoti buffi, litigate furiose. Esercitiamo l’ascolto attento e il rispetto dei tempi altrui e impariamo che ridere di una persona ti leva tante opportunità.

Ogni volta i bambini si sforzano di isolare nell’animale scelto delle caratteristiche specifiche che vorrebbero per sé o che, per qualche motivo, già si attribuiscono e si riconoscono. A mano a mano che le scelte si fanno più chiare e vengono condivise con il gruppo, nelle nostre mani il totem diventa uno strumento potentissimo, un simbolo capace di parlare al posto nostro e di testimoniare al resto della comunità chi siamo veramente: o, più semplicemente, di permetterci di giocare a esserlo. Costruire un totem come manufatto complesso, fatto di animali diversi, con caratteristiche anche sorprendentemente lontane (nello stesso totem abitano insieme il coniglio e la tigre, la pigrizia della balena o lo scatto dell’antilope, senza alcuna contraddizione per il bambino che li sceglie), richiede a tutti un forte investimento emotivo, rispetto al quale i bambini non si sottraggono mai.

Alla fine, il senso più autentico di questa straordinaria fiaba l’abbiamo trovato proprio nel totem, che tiene insieme – in una geometria vertiginosa e complessa – la complessità che ciascuno di noi è e di cui diventiamo, in questo modo, profondamente consapevoli.

Categorie
Articoli Sognalibri

Frida allo specchio!

Frida allo specchio!

di Giancarlo Chirico

È indubbio che lo specchio rappresenti uno degli oggetti (fiabeschi e non) più affascinanti e densi di significato. In primis, perché riflette quel che tu sei, restituisce ai tuoi occhi l’immagine che porti in giro per il mondo, senza alcun filtro o effetto speciale: lo specchio sa essere veritiero fino alla crudeltà. E così, cara strega, pur riconoscendo la tua bellezza, non può non declamare quella superiore di Biancaneve, lasciandoti lì a riflettere sulle ragioni che dovrebbero giustificare quella che a te pare una beffa cocente…

Ma lo specchio è anche un confine tra la dimensione fisica delle cose reali e quella impalpabile delle proiezioni immaginarie: come tutti i confini (o – pensando alle suggestioni filosofiche di Suzy Lee – come tutti i limiti), lo specchio esiste nella misura in cui può essere violato, attraversato, superato. lee_mirror-1Solo colui che osa guardare attraverso di esso può conoscere quel che veramente si nasconde dall’altra parte: e non è detto che tutto ciò sia meno reale… Alice, non potendo più calarsi per un albero cavo, esercita il proprio diritto di cittadinanza attraversando uno specchio e giungendo così per la seconda volta nello spazio abitato dalle più grandi meraviglie, dove la riflessione su se stessa può procedere senza inutili formalismi…

Infine, lo specchio è il luogo dei rovesciamenti, delle condizioni ribaltate, delle prospettive che si sovrappongono anche quando sono opposte: tu alzi il braccio destro ma lo specchio ti fa vedere quello sinistro, tu pensi che sia questo e, invece, si tratta di quello; un’opposizione che, in questo spazio, risulta sorprendentemente componibile.

3215268d-66ad-4d02-a7a3-393be316973f-620x453Chissà se avrà pensato a tutto questo Guillermo Kahlo Kaufmann allorquando, vedendo la figlia Frida completamente paralizzata su un letto, con le ossa frantumate in migliaia di dolorosi frammenti e lo sguardo spento dinanzi a una prospettiva di polvere e silenzio, decise di montarle (ma chi c’avrebbe mai pensato?) uno specchio sopra il suo letto…

Chissà se avrà pensato che, ponendola di fronte a quello specchio, la figlia sarebbe stata finalmente libera, non più preda della grigia disperazione ma capace di volteggiare con un nuovo paio di ali colorate.

Bellissima la doppia pagina che Michelangelo Rossato – nel suggestivo albo Frida Kahlo nella sua Casa Azul (Arka edizioni), con testi di Chiara Lossani – ha dedicato a questo “momento” potentissimo, durato quasi due anni: Frida Kahlo si guarda allo specchio. O meglio, non si guarda soltanto, ma si osserva, si scruta, si conosce e si riconosce in profondità.lo-specchio

E che si tratti di un momento cruciale nella vita di una ragazzina destinata a essere la più grande pittrice del secolo scorso, l’albo ce lo suggerisce allorché, per guardare l’illustrazione nel verso corretto, dobbiamo rovesciarlo e cambiare punto di vista: si tratta di una soluzione tecnica che ha autorevoli precedenti e che Michelangelo aveva già sperimentato in La Sirenetta. Ma qui i due soggetti che si fronteggiano sono la stessa persona: Frida e la sua immagine possono finalmente guardarsi reciprocamente; e noi – fuoricampo – assistiamo a un confronto intenso e autentico, senza facili scappatoie per nessuna delle due.

Sotto c’è Frida in carne e ossa, paralizzata, libera di muovere appena un braccio, con una tavolozza senza alcun colore, senza ispirazione, senza possibilità. Sopra c’è Frida in immagine e potenza, la Frida che vuole liberarsi da quella cruda prigionia e che vuole colorare il mondo intero: la Frida che vuole essere, con forza e audacia, che vuole librarsi e dare un senso alla totalità della propria sofferenza. Ma la doppia pagina illustrata da Rossato – e l’intensità dei due sguardi che s’incrociano – solleva almeno un interrogativo: siamo proprio sicuri che l’unico sguardo sia quello della Frida reale, grigia e sofferente, verso la sua immagine allo specchio, colorata e determinata? Non è forse possibile che quest’ultima Frida osservi a sua volta la prima e la scruti alla ricerca di un guizzo vitale che possa dare corpo alle possibilità ch’essa sente di rappresentare?

Perché, in questo prodigioso spazio di rovesciamenti, tutto è veramente possibile: anche che sia l’immagine nello specchio a riflettere, a sua volta, sul corpo che la proietta e la produce, rivelando nuove e inaudite forme di consapevolezza. A ben vedere, l’immagine allo specchio è allo stesso tempo ciò che siamo di qua dallo specchio e quel che possiamo diventare di là da esso, perché su questa soglia incerta e fragile abitano possibilità che vanno ancora scoperte ed esplorate. Frida deve averlo capito, tant’è che negli anni a seguire, per tutti i tormentati anni della sua straordinaria carriera, continuerà a dipingere prevalentemente autoritratti; e quando le chiesero le ragioni di questa sua scelta artistica, rispose semplicemente: “Dipingo me stessa perché passo molto tempo da sola e sono il soggetto che conosco meglio”.

È come se Frida, per tutta la sua vita, avesse continuato a sperimentare e a dare corpo alle infinite possibilità – alcune ricche di risvolti positivi, altre (purtroppo) cariche di dolori – che nei lunghi mesi dell’immobilità aveva imparato a scorgere nel riflesso dello specchio: ora indigena circondata da gatti, da scimmiette, da pappagalli, o da altri animali esotici, ora vestita completamente di bianco, ora cerbiatta in fuga, trafitta da decine di frecce e da un dolore indicibile.

E a noi, quante volte, ci capita di guardarci allo specchio? Decine e decine nella stessa giornata… ma lo facciamo solo per specchiarci in superficie o per guardarci in profondità, come seppe fare Frida? riusciamo a scorgervi il motore pulsante delle possibilità che siamo e che possiamo realizzare? A partire da queste domande, l’albo di Lossani e Rossato ci regala lo spunto per una divertentissima esperienza da vivere con i bambini: metteteli davanti a uno specchio e invitateli a osservarsi con attenzione, per cogliere le proprie caratteristiche da riprodurre poi in un ritratto…ebbene, ci regaleranno dei capolavori!

78926904_578488562719358_8728099429304762368_n

 

Categorie
Articoli Sognalibri

“Havel e i suoi fantasmini” di Giancarlo Chirico

 «Ogni parola racchiude in sé la storia di coloro che la pronunciano […] Un uomo solo, anche se apparentemente impotente, che ha il coraggio di pronunciare ad alta voce una parola autentica e di sostenerla con tutta la sua persona e con tutta la sua vita, pronto a pagare per essa duramente, ha più potere di migliaia di anonimi».

Havel

maxresdefault

Trent’anni fa il 1989!

Gli anniversari a cifra tonda a volte riescono un po’ altisonanti ma, almeno in qualche caso, il clamore sembra più che giustificato: prendete il 1989, anno denso di eventi epocali, di cui proprio quest’anno ricorre il trentesimo anniversario. Eventi clamorosi che hanno cambiato radicalmente la nostra visione del mondo: l’ascesa politica di Solidarność in Polonia, il rovesciamento della dittatura di Ceausescu in Romania, la beffarda caduta del Muro più truce di ogni tempo e la rivoluzione meno sanguinaria della storia, la Rivoluzione di velluto, consumatasi nel giro di un mese tra Praga e Bratislava.

89-1989Chi c’era forse ricorderà che si trattò di eventi caotici, concitati, in molti casi confusionari: non è facile riportarli alla memoria, anche a distanza di trent’anni, e tenere insieme le fila di narrazioni così articolate e complesse. A quest’anno e al suo simbolo per antonomasia è dedicato il densissimo albo di Orecchio acerbo, intitolato proprio 1989 e dedicato a tutti i muri – visibili e invisibili – della storia: dieci voci in un unico albo, che provano ad attraversare i muri e andare oltre la loro fisica assurdità. L’albo, nella dialettica serrata dei testi tra loro e con le visionarie illustrazioni di Henning Wagenbreth, restituisce un quadro ricco, articolato e nient’affatto lineare di un anno che ha segnato la storia del nostro continente.

I Fantasmini di Havel

L’albo di cui vogliamo parlarvi, invece, è ancora inedito in Italia ed è legato alla Cecoslovacchia, un paese geograficamente nel cuore dell’Europa ma che, a causa di quell’assurda linea politica rappresentata proprio dal Muro di Berlino, venne a trovarsi dall’altra parte. Nasce nell’ambito di un’operazione editoriale coraggiosa e romantica e lo ha recuperato per noi una casa editrice praghese – Meander – che, nel 2003 ha ripubblicato una tiratura celebrativa e limitatissima (appena 300 copie). Il titolo in ceco è Piž D’uchové, espressione che abbiamo provato a tradurre con Fantasmini; le illustrazioni sono di Jiří Sopko, uno dei più interessanti artisti cechi contemporanei, che riesce a dar corpo a tutta la goffaggine di questi sinistri personaggi.k-pd-02

L’autore è una firma del tutto inedita per la letteratura per l’infanzia: si tratta nientemeno che di Václav Havel, letterato sopraffine, uomo di eccezionale levatura, statista di grande spessore, primo Presidente liberamente eletto della Repubblica Cecoslovacca. Prima di questo libro Havel non aveva mai scritto – e dopo questo libro, mai più scriverà – per bambini, tant’è che lui stesso, nella dedica, confessa il proprio disagio: “Cari bambini, non sono solito scrivere per voi, e per questo non so se questo racconto sui Piž D’uchové possa avere senso per voi e se possa piacervi. Se così non fosse, non buttatelo via – aspettate e vedete come sarà quando sarete più vecchi. Vostro Vaclav Havel”.

Il libro – con la sua copertina rossa che a stento prova a contenere un inquietante faccione verde – mi è capitato tra le mani mentre mi aggiravo tra i negozi dell’aeroporto praghese, bloccato da un provvidenziale ritardo: che ci faceva il nome di Havel su quello che era evidentemente un albo illustrato? Per mia fortuna, scopro che l’edizione è in doppia lingua, ceco e inglese: comincio a leggere le prime righe… e, da allora, non l’ho più mollato!

Scopro così che Havel ci mette mano nel 1975 quando, tramite il connazionale Ivan Klima, gli giunge una proposta sicuramente interessante, ma anche tanto pericolosa: una casa editrice tedesca aveva deciso di dare voce a dodici dissidenti cecoslovacchi, chiedendo loro di scrivere fiabe e novelle per bambini e di recuperare la ricca tradizione favolistica nazionale. In quanto dissidenti, a questi autori non era permesso pubblicare in patria: alcuni lo facevano clandestinamente, realizzando (anche a mano) fogli o periodici dove riproducevano testi letterari messi all’indice; altri, come Havel, cercavano in qualche modo di far giungere i loro manoscritti oltre la “cortina di ferro”.

Havel e i bambini

Havel resterà sempre un po’ scettico rispetto a questa operazione editoriale, forse perché un po’ estraneo al mondo delle fiabe: eppure, da gran scrittore qual è, realizza – nel suo inconfondibile stile – una serie di cinque racconti visionari e potenti, degni delle fiabe più autentiche. I protagonisti sono i Piž D’uchové, creature di indole pavida e dalla parlata melliflua, bramosi di potere e votati alla finta cordialità, che si aggirano per il mondo con superficialità, guardando tutti di sbieco e con lo sguardo sospettoso.

I primi due racconti si basano sul tradizionale schema della commedia degli equivoci,  esaurendosi in una litania al limite dell’assurdo, che si contorce a spirale e dove la forma nasconde malamente la totale assenza di sostanza. Gli altri racconti – come delle vere e proprie scene teatrali – affrontano temi di estrema attualità, come il rispetto per l’ambiente a partire dai piccoli gesti, i cortocircuiti relazionali e i perversi rapporti con gli apparecchi telefonici: in certi passaggi si ha la sensazione che siano stati scritti da un autore contemporaneo.

pizduchove_ilustrace2

I Piž D’uchové dimostrano chiaramente che il potere, quando è autoreferenziale, diventa prigioniero delle sue stesse menzogne e, nella speranza di conservarsi, falsifica ogni altra cosa. La sua rete si regge sugli inganni, le spiate, le origliate: sembra forte e onnipresente ma siamo noi ad alimentarla. Per troppa paura, accettiamo il ruolo di delatori o marionette, preferendo vivere nella menzogna, convinti che si tratti pur sempre di una qualche forma di vita. Al contrario Havel è sicuro che i bambini – nemici di ogni mistificazione – non cascheranno mai nel tranello dei Piž D’uchové e si rivolge continuamente a loro (fa domande, chiede cosa ne pensino, li chiama a una reazione), non dubitando neanche per un minuto che loro – meglio di noi adulti – sapranno scegliere la cosa giusta: vivere la verità, senza menzogne né compromessi.

L’epilogo della vicenda storica

Il 17 novembre 1989, quando a Praga e a Bratislava si tennero le prime manifestazioni studentesche, Václav Havel si trovava in prigione: era stato arrestato il 28 ottobre e non era la prima volta. Negli anni precedenti, infatti, aveva costantemente manifestato il proprio dissenso verso il regime, accettando di non rappresentare le proprie opere, vivendo ai margini della società, costantemente sorvegliato, e rinunciando addirittura a una proposta di grazia. La caduta del Muro, appena qualche giorno prima, aveva come ridestato le coscienze assopite e spaventate, rappresentando per tutti il segno evidente che la Storia fosse destinata a cambiare. Il 21 novembre – quattro giorni dopo le prime manifestazioni, 12 giorni dalla caduta del Muro – nonostante le false informazioni e i tentativi di depistaggio, i manifestanti erano passati da 15 mila a quasi mezzo milione di persone. Le cronache raccontano di fasi politiche estremamente concitate, di colloqui tesissimi tra regime e oppositori, di manifestazioni affollate e convulse, di un’intera nazione paralizzata tra scioperi e cortei. La transizione, però, per quanto rapidissima, si realizzò senza alcuna violenza: il 29 dicembre 1989 Václav Havel fu nominato Presidente della Repubblica cecoslovacca.

pizduchove_ilustrace