“Havel e i suoi fantasmini” di Giancarlo Chirico
«Ogni parola racchiude in sé la storia di coloro che la pronunciano […] Un uomo solo, anche se apparentemente impotente, che ha il coraggio di pronunciare ad alta voce una parola autentica e di sostenerla con tutta la sua persona e con tutta la sua vita, pronto a pagare per essa duramente, ha più potere di migliaia di anonimi».
Havel
Trent’anni fa il 1989!
Gli anniversari a cifra tonda a volte riescono un po’ altisonanti ma, almeno in qualche caso, il clamore sembra più che giustificato: prendete il 1989, anno denso di eventi epocali, di cui proprio quest’anno ricorre il trentesimo anniversario. Eventi clamorosi che hanno cambiato radicalmente la nostra visione del mondo: l’ascesa politica di Solidarność in Polonia, il rovesciamento della dittatura di Ceausescu in Romania, la beffarda caduta del Muro più truce di ogni tempo e la rivoluzione meno sanguinaria della storia, la Rivoluzione di velluto, consumatasi nel giro di un mese tra Praga e Bratislava.
Chi c’era forse ricorderà che si trattò di eventi caotici, concitati, in molti casi confusionari: non è facile riportarli alla memoria, anche a distanza di trent’anni, e tenere insieme le fila di narrazioni così articolate e complesse. A quest’anno e al suo simbolo per antonomasia è dedicato il densissimo albo di Orecchio acerbo, intitolato proprio 1989 e dedicato a tutti i muri – visibili e invisibili – della storia: dieci voci in un unico albo, che provano ad attraversare i muri e andare oltre la loro fisica assurdità. L’albo, nella dialettica serrata dei testi tra loro e con le visionarie illustrazioni di Henning Wagenbreth, restituisce un quadro ricco, articolato e nient’affatto lineare di un anno che ha segnato la storia del nostro continente.
I Fantasmini di Havel
L’albo di cui vogliamo parlarvi, invece, è ancora inedito in Italia ed è legato alla Cecoslovacchia, un paese geograficamente nel cuore dell’Europa ma che, a causa di quell’assurda linea politica rappresentata proprio dal Muro di Berlino, venne a trovarsi dall’altra parte. Nasce nell’ambito di un’operazione editoriale coraggiosa e romantica e lo ha recuperato per noi una casa editrice praghese – Meander – che, nel 2003 ha ripubblicato una tiratura celebrativa e limitatissima (appena 300 copie). Il titolo in ceco è Piž D’uchové, espressione che abbiamo provato a tradurre con Fantasmini; le illustrazioni sono di Jiří Sopko, uno dei più interessanti artisti cechi contemporanei, che riesce a dar corpo a tutta la goffaggine di questi sinistri personaggi.
L’autore è una firma del tutto inedita per la letteratura per l’infanzia: si tratta nientemeno che di Václav Havel, letterato sopraffine, uomo di eccezionale levatura, statista di grande spessore, primo Presidente liberamente eletto della Repubblica Cecoslovacca. Prima di questo libro Havel non aveva mai scritto – e dopo questo libro, mai più scriverà – per bambini, tant’è che lui stesso, nella dedica, confessa il proprio disagio: “Cari bambini, non sono solito scrivere per voi, e per questo non so se questo racconto sui Piž D’uchové possa avere senso per voi e se possa piacervi. Se così non fosse, non buttatelo via – aspettate e vedete come sarà quando sarete più vecchi. Vostro Vaclav Havel”.
Il libro – con la sua copertina rossa che a stento prova a contenere un inquietante faccione verde – mi è capitato tra le mani mentre mi aggiravo tra i negozi dell’aeroporto praghese, bloccato da un provvidenziale ritardo: che ci faceva il nome di Havel su quello che era evidentemente un albo illustrato? Per mia fortuna, scopro che l’edizione è in doppia lingua, ceco e inglese: comincio a leggere le prime righe… e, da allora, non l’ho più mollato!
Scopro così che Havel ci mette mano nel 1975 quando, tramite il connazionale Ivan Klima, gli giunge una proposta sicuramente interessante, ma anche tanto pericolosa: una casa editrice tedesca aveva deciso di dare voce a dodici dissidenti cecoslovacchi, chiedendo loro di scrivere fiabe e novelle per bambini e di recuperare la ricca tradizione favolistica nazionale. In quanto dissidenti, a questi autori non era permesso pubblicare in patria: alcuni lo facevano clandestinamente, realizzando (anche a mano) fogli o periodici dove riproducevano testi letterari messi all’indice; altri, come Havel, cercavano in qualche modo di far giungere i loro manoscritti oltre la “cortina di ferro”.
Havel e i bambini
Havel resterà sempre un po’ scettico rispetto a questa operazione editoriale, forse perché un po’ estraneo al mondo delle fiabe: eppure, da gran scrittore qual è, realizza – nel suo inconfondibile stile – una serie di cinque racconti visionari e potenti, degni delle fiabe più autentiche. I protagonisti sono i Piž D’uchové, creature di indole pavida e dalla parlata melliflua, bramosi di potere e votati alla finta cordialità, che si aggirano per il mondo con superficialità, guardando tutti di sbieco e con lo sguardo sospettoso.
I primi due racconti si basano sul tradizionale schema della commedia degli equivoci, esaurendosi in una litania al limite dell’assurdo, che si contorce a spirale e dove la forma nasconde malamente la totale assenza di sostanza. Gli altri racconti – come delle vere e proprie scene teatrali – affrontano temi di estrema attualità, come il rispetto per l’ambiente a partire dai piccoli gesti, i cortocircuiti relazionali e i perversi rapporti con gli apparecchi telefonici: in certi passaggi si ha la sensazione che siano stati scritti da un autore contemporaneo.
I Piž D’uchové dimostrano chiaramente che il potere, quando è autoreferenziale, diventa prigioniero delle sue stesse menzogne e, nella speranza di conservarsi, falsifica ogni altra cosa. La sua rete si regge sugli inganni, le spiate, le origliate: sembra forte e onnipresente ma siamo noi ad alimentarla. Per troppa paura, accettiamo il ruolo di delatori o marionette, preferendo vivere nella menzogna, convinti che si tratti pur sempre di una qualche forma di vita. Al contrario Havel è sicuro che i bambini – nemici di ogni mistificazione – non cascheranno mai nel tranello dei Piž D’uchové e si rivolge continuamente a loro (fa domande, chiede cosa ne pensino, li chiama a una reazione), non dubitando neanche per un minuto che loro – meglio di noi adulti – sapranno scegliere la cosa giusta: vivere la verità, senza menzogne né compromessi.
L’epilogo della vicenda storica
Il 17 novembre 1989, quando a Praga e a Bratislava si tennero le prime manifestazioni studentesche, Václav Havel si trovava in prigione: era stato arrestato il 28 ottobre e non era la prima volta. Negli anni precedenti, infatti, aveva costantemente manifestato il proprio dissenso verso il regime, accettando di non rappresentare le proprie opere, vivendo ai margini della società, costantemente sorvegliato, e rinunciando addirittura a una proposta di grazia. La caduta del Muro, appena qualche giorno prima, aveva come ridestato le coscienze assopite e spaventate, rappresentando per tutti il segno evidente che la Storia fosse destinata a cambiare. Il 21 novembre – quattro giorni dopo le prime manifestazioni, 12 giorni dalla caduta del Muro – nonostante le false informazioni e i tentativi di depistaggio, i manifestanti erano passati da 15 mila a quasi mezzo milione di persone. Le cronache raccontano di fasi politiche estremamente concitate, di colloqui tesissimi tra regime e oppositori, di manifestazioni affollate e convulse, di un’intera nazione paralizzata tra scioperi e cortei. La transizione, però, per quanto rapidissima, si realizzò senza alcuna violenza: il 29 dicembre 1989 Václav Havel fu nominato Presidente della Repubblica cecoslovacca.