Bruno Schulz, ovvero l’enigma della sparizione

Bruno Schulz, ovvero l’enigma della sparizione

di Giancarlo Chirico

“… mi sembra che il genere d’arte che mi sta a cuore, sia appunto la regressione, l’infanzia reintegrata. Se si potesse riportare indietro lo sviluppo, raggiungere di nuovo l’infanzia per una qualche via circolare, possederne ancora la pienezza e l’immensità, sarebbe l’adempiersi dell’“epoca geniale”, dei “tempi messianici”, che ogni mitologia ci ha promesso e giurato. Il mio ideale è “maturare” verso l’infanzia. Solo questo sarebbe un’autentica maturità”.

(Bruno Schulz in una lettera ad A. Plesniewicz)

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Se ci limitassimo a seguire le indicazioni dei programmi scolastici, a Bruno Schulz – pittore e scrittore ebreo polacco, nato a Drohobyč, in Galizia, nel 1892 – nella migliore delle ipotesi andrebbe dedicato poco più di un paragrafo: d’altronde, è difficile spiegarsi come uno scrittore che ha lasciato appena qualche centinaio di pagine (due raccolte di racconti, una traduzione e qualche epistola) possa rappresentare un riferimento irrinunciabile per tanti altri, assai più noti e affermati. Eppure, nel 1970 Italo Calvino – tanto per citarne uno – salutò con entusiasmo l’edizione italiana de Le botteghe color cannella, nella cui introduzione Angelo Maria Ripellino tesseva addirittura un paragone tra Schulz e Kafka: paragone nient’affatto azzardato se il Premio Nobel Isaac B. Singer confessò a Philip Roth di considerare l’autore polacco superiore a quello ceco.

Ma chi era veramente Bruno Schulz, quest’ombra inquieta e bizzarra che ha attraversato così silenziosamente gli anni più bui e decadenti del secolo scorso? Come ha fatto e cosa ha scritto per impressionare in maniera tanto profonda autori come Grossman, Roth, Ficowski e la Ozick, ma anche registi come Tadeusz Kantor? È possibile che sia riuscito a comprendere così a fondo la natura umana pur senza essersi quasi mai mosso dalla nativa Galizia?

Trovo affascinante che la ricerca delle risposte a queste domande possa prendere le mosse da un albo illustrato e dalla scelta di un editore – Orecchio acerbo – di puntare su una storia a dir poco conturbante, scritta da un’autrice fortemente ispirata e, a quei tempi, quasi esordiente (la messinese Nadia Terranova) e illustrata magistralmente dalla geniale Ofra Amit: perché, quando si tratta di albi illustrati, è molto facile che la storia prenda svolte inattese e si intrecci con tante altre storie, in un ordito ricco e vivace come solo la realtà sa essere.

Pensiamo a come viene raccontato il rapporto che Bruno ha con il padre, maestro mutaforma, da cui apprende i segreti della sconfinata immaginazione: si parte dalla prospettiva di un bambino timido e quasi impacciato, con la testa un po’ grossa, e si finisce per scovare una traccia indelebile della poetica di Schulz, dove non esistono forme precostituite e la materia si apre al fantastico e alla potenza della parola creatrice.schermata-2014-02-09-alle-12-13-52

Di per sé – sostiene il padre di Bruno in un racconto – “la materia è dotata di una fecondità senza fine, di un’inesauribile forza vitale e al tempo stesso di un seducente potere di tentazione che ci spinge a creare. Nelle profondità della materia si delineano indistinti sorrisi, sorgono contrasti, si affollano abbozzi di forme”. E ciascuno di noi ha la possibilità di liberare ‘sorrisi’, ‘contrasti’ e ‘forme’, imprimendoli nella materia con la forza martellante della propria fantasia: è quel che la parola fa da sempre, consentendoci di dare senso alla realtà e di rielaborare la complessità del mondo, senza semplificarla ma, al contrario, amplificandola lungo l’asse del nostro favoleggiare; senza perdersi, ma ritrovandosi.

È una rivelazione sorprendente! Noi crediamo che esista solo la realtà, che non c’è niente oltre le cose che ci circondano e che riempiono la nostra esistenza – quasi ottundono i nostri sensi – e, invece, scopriamo che è il contrario, che esiste solo il nostro fantasticare! Siamo noi a decidere cosa fare della realtà, a scegliere la storia che vogliamo vivere e raccontare, imprimendola nella materia del tutto-possibile: non è straordinario che tutto questo giunga a noi attraverso un albo illustrato?

Ma la vicenda di Bruno ha molte altre cose da raccontarci, a partire dall’aspetto forse più conturbante di questo padre-demiurgo, ovvero le sue lunghe sparizioni: “in giacca e cravatta dietro al bancone, mentre discuteva con i commessi e i clienti, poteva essere scambiato per un commerciante irreprensibile, ma poi bastavano un dettaglio sopito o una curiosità imprevista perché abbandonasse di nuovo la noia quotidiana. E Bruno tornava a fare i conti con un’altra sparizione”.

Finché non si compie la sparizione più assurda di tutte, la sua morte. E la Terranova sancisce: “Niente. Nulla. Il vuoto”.

 Ma a saper guardare, anche in questo caso ci aspetta una rivelazione sorprendente: la sparizione non è il dominio della negazione, l’eliminazione di quel che c’è e il suo confinamento nella regione della nientificazione, verso quel che ‘non è più’. Si tratta, piuttosto, di un altro aspetto della forza creatrice della fantasia, il contromovimento del diaframma che ci permette di riempire di aria i polmoni, prima di liberare la voce, il dominio della noia, l’ora vuota di certi pomeriggi di estate, prima che si popolino dei giochi più divertenti. E Nadia, appassionata studiosa dell’opera di Schulz, ce lo racconta con assoluta maestria, riuscendo a dare una forma nuova e coraggiosa al triste epilogo di questa vicenda.

ofra-amit-illustration-from-bruno-il-bambino-che-imparo-a-volare-2013Come noto, quando la Germania nazista occupò la Galizia, anche qui gli ebrei furono confinati nei ghetti. Per gli abitanti di Drohobyč le cose si mettono subito male: la gente comincia a ‘sparire’, a causa delle crudeli e arbitrarie uccisioni eseguite da gerarchi folli e inebriati di potere. “Niente. Nulla. Il vuoto”. Anche Schulz si trova in grossa difficoltà, finché non trova lavoro e protezione presso Felix Landau, ufficiale della Gestapo, che ne apprezza le doti artistiche: eppure, la fine giunge inesorabile e Bruno rimane barbaramente ucciso in un sanguinoso giovedì di novembre, colpito a freddo, da un ufficiale delle SS, pare per una rivalità personale con il suo protettore.

Ma ecco il colpo di scena: “il cappotto di Bruno si afflosciò per terra. Ma dentro non c’era più nessuno. L’ufficiale non poteva credere ai suoi occhi: dov’era finito quel piccolo ebreo dalla testa grossa? Scatenò gli scagnozzi sulle sue tracce. Niente. Nulla. Il vuoto”.

Quelle parole che per anni avevano rappresentato una condanna di vuoto e solitudine, riescono ora a imprimere nella storia un finale diverso da quello che ci saremmo aspettati e a sovvertire l’ordine dei fatti, sprigionando l’incanto autentico delle formule magiche: Bruno ha imparato l’ultimo segreto del padre, quello della sparizione, che non vuole essere fine a se stessa ma rappresentare un maestoso prologo per tutte le apparizioni successive.

La volta precedente, quando il padre era sparito per sempre, Bruno – ancora ragazzino – “frugò e frugò dentro la testa finché trovò quello che gli serviva: una matita. Sparsi sul pavimento rimasero molti ricordi e qualche foglio bianco”. Adesso che a sparire è lui, è finalmente pronto a nuove apparizioni, attraverso i suoi disegni e i racconti, le lettere e le tante suggestioni letterarie e artistiche! Fino a quella più clamorosa, ovvero il fortunoso rinvenimento di uno straordinario ciclo di affreschi – ispirato alle fiabe dei Grimm – commissionato da Landau, per abbellire la stanza dei figli nella casa di Drohobyč requisita come abitazione: era il 2001.

Quando da bambini qualcosa spariva eravamo pronti a cercarla ovunque, anche scrutando gli angoli più nascosti del cielo: crescendo, credo che abbiamo finito per dimenticare il segreto di questo sguardo indagatore di miti. Ma con Bruno ora sappiamo che non è mai troppo tardi per ricordarlo…

Lui lo chiama “maturare verso l’infanzia”: in verità, è il segreto di chi sa volare!

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