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Cosa regalare a Natale?

A fine Novembre incombe con le piogge di stagione una domanda per tutti ” Cosa regalare a Natale?”. E soprattutto “Cosa regalare ai bambini?”.

Si sa, la loro lista non manca ma ci sono molti genitori che sanno intercettare i bisogni più profondi dei bambini e capire come aiutarli ad affrontare certe fasi della vita o semplicemente accompagnarli in una nuova passione, in un nuovo hobby. Immancabilmente torniamo bambini anche noi, specialmente quando abbiamo un catalogo davanti ricco di regali stimolanti, fatto di giochi, libri da leggere, giochi da tavola da poter fare insieme a tutta la famiglia e agli amichetti, giochi per imparare divertendosi.

Sognalibri tutto questo lo sa, e per questo quest’anno ha voluto riservare una “stanza” speciale sul suo sito dove tutti possono trovare giochi e libri da poter acquistare e per poter fare spedizioni in tutta Italia. Un modo per aprire una parte della libreria a chi è lontano e non può perdersi tra gli scaffali e i colori che riempono di magia il cuore. Gli articoli che saranno in vendita in questo spazio on line, saranno solo on line, come una soffitta segreta, come una stanza segreta degli elfi, con porte dimensionali luminose che si aprono da ogni città. Troppa magia? Ma del resto che cos’è il Natale se non magia? Magia di vedere sorrisi spuntare sui volti di chi si ama e a noi i sorrisi piacciono tanto!

Ogni settimana ci saranno novità in arrivo sullo shop on line e offerte e promozioni limitate nel tempo, da cogliere al volo prima che la magia degli elfi sparisca!
Rimanete in ascolto, la magia sta arrivando!

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L’invenzione dell’abbraccio, ovvero quando accogliamo davvero

 

L’invenzione dell’abbraccio

ovvero

Quando accogliamo davvero

 

Ci si abbraccia per ritrovarsi interi

Alda Merini

In questi tempi di contingentamento fisico, nei quali ciascuno si è ritrovato chiuso nel proprio spazio, isolato dagli altri, abbiamo riscoperto – proprio a partire da questa fortissima mancanza – il valore dell’abbraccio, di questo stringersi l’un l’altro che, secondo Paulo Coelho, rappresenta «un gesto antico quanto l’umanità». Non a caso, sui social girano tantissimi meme su questo tema, alcuni anche molto divertenti, come la promessa che «quando tutto finirà, abbraccerò anche i pali della luce!».

Ma cosa c’è veramente dentro un abbraccio? Quale forza sconfinata si sprigiona e si apre da questo spazio chiuso tra due corpi?

download-7Proviamo a indagarlo a partire da un libro molto particolare, frutto della collaborazione di due grandi autori, lo scrittore David Grossman e l’artista Michal Rovner: un testo leggero e potente che si intreccia con figure esili e quasi evanescenti, capaci di abitare insieme uno spazio nient’affatto vuoto, ma accogliente e consapevole.

Uno spazio che non è fatto per isolare ma per accogliere, includere, ascoltare, permettere la co-costruzione di rapporti e significati: una pre-condizione che rende possibile l’incontro e la comprensione. Perché davanti alle ragioni dell’altro, ai suoi dubbi, paure, emozioni, la cura è possibile solo a partire da un’apertura, dallo spazio che si fa con le braccia e che abitiamo insieme: un abbraccio non è soltanto un ponte che gettiamo all’altro, per ridurre le distanze e accostarci a lui; è soprattutto uno spazio che gli apriamo, al di là di ogni differenza che pur permane.

La storia prende le mosse da un’osservazione che ciascun genitore sottoscriverebbe per il proprio figlio: «Sei dolcissimo e tanto carino, non c’è nessuno al mondo come te!». Una tenera carezza che, però, turba il piccolo Ben: «Davvero non c’è nessuno al mondo come me?». Per noi adulti non c’è certezza più solida e necessaria di quella di essere unici e irripetibili: su questa verità abbiamo costruito il senso autentico della nostra identità individuale e l’impossibilità di ricondurla ad altri se non a noi stessi. È, dunque, sorprendente dover fare i conti con una logica – quella dei bambini – radicalmente diversa: per loro è fondamentale, piuttosto, potersi riconoscere come parte di qualcosa di più grande, ritrovarsi in una curvatura di senso capace di accoglierli, sostenerli e spiegargli a quali condizioni (anche loro) sono!

Al nostro marcato bisogno di individualismo – condotto fino agli eccessi dell’egocentrismo – i bambini oppongono, quasi istintivamente, la logica di gruppo, l’appartenenza, l’amorevolezza del riconoscersi e del somigliarsi. Per Ben questa cosa dell’unicità e dell’irripetibilità ha il sapore sconsolato della solitudine, impedendogli di riconoscere nessun altro al mondo se non se stesso.

«[…] è una cosa bellissima che tu sia unico e speciale!», osserva la madre.

«Perché così sono solo», osserva sconsolato Ben.

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A questo punto della storia, le tre figure – Ben, la mamma e il cane –, che fino a quel momento si sono mosse leggiadre tra le pagine del libro, diventano immobili: il cane è a cuccia, in posizione di attesa, la madre è seduta, con il volto rivolvo verso il figlio, di Ben non si distinguono neppure le braccia! Tre identità ben definite, che non comunicano tra loro: ragioni che non si parlano (più). Silenzio.

Dal punto di vista di Ben, la questione assume i contorni delle più radicali indagini filosofiche: egli si mette alla ricerca senza sapere veramente dove approderà mai! Il suo turbamento finisce per rappresentare quello di ciascuno di noi: come ri-comporre le molteplici individualità che (tutti noi) siamo?

In un gioco di ombre e di contorni sfumati, la madre prova a spiegare a Ben che essere unici non vuol dire isolamento esistenziale, perché tutti siamo parte di qualcosa di più grande: ciascuno di noi potrà sempre contare su presenze amiche, sulla vicinanza affettiva, emotiva, fisica e relazionale di persone che sono lì con noi. Un concetto vertiginoso che prova a rappresentare graficamente con una spirale avvolgente: «Sono un po’ sola e sono un po’ con gli altri, e a me va bene essere un po’ così e un po’ cosà».

L’immagine potrebbe sembrare quasi consolante se quelle figure avvolte nei cerchi non ci ricordassero le vittime del Minotauro, chiuse nel labirinto di Cnosso: allo stesso modo, anche noi sembriamo persi nei nostri percorsi, incapaci di uno slancio di autentica condivisione. Dal punto di vista di Ben è una ben magra consolazione sapere che nello stesso labirinto ci sono altre persone che stanno vivendo il nostro stesso spazio e il nostro stesso tempo, se non abbiamo – e non ce l’abbiamo! – la certezza di poter comunicare con loro, non solo per scambiarci idee e opinioni, ma per condividere, nel profondo, emozioni e preoccupazioni. Per assurdo, potremmo vivere tutta la vita in compagnia di altre persone, senza conoscerle mai veramente: abbiamo, dunque, bisogno di scoprirci somiglianti, perché solo così possiamo soffocare alla radice la solitudine che genera mostri.

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Ed ecco che, d’improvviso, questo piccolo libro si fa pesantissimo: che vita potrà mai essere quella vissuta in solitudine, nelle involuzioni segrete dei nostri labirinti? Quando Ben e la madre si fermano a osservare alcune formiche che passano tra i fili d’erba, Ben vorrebbe sapere cosa pensa quella formichina che si è leggermente staccata dal gruppo: ma non può saperlo, semplicemente perché lui non è quella formica e nessuno (se non lei) potrebbe rivelarglielo. Il bambino prova allora a immaginare che le due formiche più grandi accanto a quella piccolina – che nel frattempo è rientrata nel gruppo – siano i suoi genitori, che la formichina non è stata lasciata sola (che lui non sarà mai lasciato solo!), ma non può dirlo con certezza: quando parliamo della radicalità della domanda filosofica, intendiamo qualcosa di molto simile a questa vertigine!

Per fortuna che la mamma è la mamma! E quando la domanda si fa troppo ingombrante, eccola pronta a sparigliare le carte e a immaginare nuove possibilità, a partire da quel che il titolo ci ha suggerito sin dall’inizio. L’abbraccio! In un abbraccio forte e sincero, due cuori possono ritrovarsi e, addirittura, sincronizzarsi. Poter ascoltare il battito del cuore dell’altro è segno inequivocabile che lui è lì con noi: restiamo unici, questo sì, ma aperti alla condivisione e alla comprensione autentica. Ed è quest’apertura – quella delle braccia, pronte ad accogliere per fare spazio – che rende vana ogni solitudine e, oltre ogni distanza siderale, fa congiungere pianeti e stelle.

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La mamma, alla fine, parla dell’invenzione dell’abbraccio, come se si trattasse della ruota o del televisore: se è vero che ogni invenzione ci aiuta a progredire in questo difficile cammino che è la vita, beh, allora l’abbraccio è proprio un’invenzione potente!

 

David Grossman, Michal Rovner, L’abbraccio, Mondadori, 2018

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Le due bambine di vetro, ovvero il coraggio della parresia

Quando ho avuto tra le mani La bambina di vetro, l’ultimo albo di Beatrice Alemagna per Topipittori, ho avuto come un sussulto. Eh sì, perché qualche tempo fa anch’io avevo scritto una fiaba con lo stesso titolo, una fiaba che, per lungo tempo ho mantenuto nascosta: il fatto è che quando scrivi una storia che riflette così da vicino la tua esperienza, può succedere che qualcosa non ti convinca del tutto e senti il bisogno di continuare a meditarla.

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Ora, stringevo tra le mani una storia con lo stesso titolo, raccontato da una delle mie autrici preferite e guardavo un volto così simile a quello che avevo immaginato io: di quale storia si sarebbe trattato?

L’autrice dichiara subito il suo debito verso Gianni Rodari che, in Favole al telefono, aveva raccontato la prodigiosa vicenda di Giacomo di Cristallo, tant’è che «si potrebbe dire che Gisèle, la protagonista di questo libro, sia la sorellina francese di Giacomo (nata a Parigi e mai pubblicata prima d’ora in Italia)». Conoscevo la fiaba di Rodari ma non aveva molto a che fare con la mia principessina di vetro: lei e Giacomo erano così diversi e, poi – mi dicevo – l’ispirazione abitava proprio a casa mia. Ma, dal momento che certi legami letterari sono molto più forti di quel che uno scrittore sia disposto ad ammettere, ho deciso di rileggere la mia fiaba, proprio a partire dall’albo che avevo tra le mani …

Nata completamente di vetro, Gisèle è trasparente e fragile allo stesso tempo ma, più di ogni fragilità fisica, teme e patisce quella emotiva, non potendo sopportare che la gente riesca a sbirciare tra i suoi pensieri: «la gente si arrabbiava con lei, continuamente: “Non riesci a smettere di pensare?”; oppure: “Non ti vergogni di mostrare questi orrori?». Incapace di non farsi scalfire dai giudizi delle persone, a un certo punto Gisèle decide di partire, fuggire, allontanarsi da tutto quanto; finirà, tuttavia, per dover ammettere che non dipende tanto dalla gente, ma che è una condizione legata alla sua unicità.

Mentre sfogliavo le pagine di questo albo che – quale prodigio artistico! – si faceva esso stesso trasparente come vetro, mi tremava la mano: anche per Gisèle – come per la mia principessina – è impossibile riconoscersi simile agli altri bambini. Entrambe sono troppo diverse e non potranno fare nulla per cambiare le cose: potranno solo fare i conti con la loro diversità. Solo che, per un’esigenza biografica prima che narrativa, io avevo scelto di raccontare la vicenda dal punto di vista dei genitori, mentre l’Alemagna mi offriva, adesso, proprio quello della bambina: mentre io ero come paralizzato davanti alla fragilità di quella creatura miracolosa e mi prodigavo per proteggerla a ogni costo, Beatrice mi spingeva a guardare oltre la trasparenza del cristallo, dritto nel cuore di Gisèle, alla radice del suo infinito coraggio, della sua voglia di ridere, giocare, librarsi leggera.

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Gisèle fa un percorso dentro se stessa e, come il suo fratellino putativo, si appella con forza all’esperienza della verità: nella fiaba di Rodari, questo riferimento è addirittura esplicito, allorché nel finale è detto che «la verità è più forte di qualsiasi cosa, più luminoso del giorno, più terribile di un uragano»; proprio in questo sta il senso della vittoria di Giacomo sull’insopportabile tiranno. Dal canto suo, l’Alemagna, pur ribadendo questo insopprimibile bisogno di verità, prova ad accompagnare Gisèle per un altro itinerario, alla fine del quale scopre che essere veri significa rivendicare senza compromessi la propria identità, senza rinunciarvi mai; significa praticare il coraggio della parresia, l’antica pratica filosofica greca consistente nel mantenere la propria condotta di vita sempre aderente al vero.

Secondo il filosofo francese Michel Foucault chi pratica la parresia mette a rischio la propria vita, dal momento che potrebbe urtare la sensibilità del proprio interlocutore, costringendolo a ribattere in maniera aggressiva al pregio cristallino della verità. E qui passa la distanza tra i nostri due personaggi: Giacomo, quasi fosse un novello Socrate, nonostante sia messo in catene, continua a testimoniare e a risplendere; Gisèle, invece, giunta al centro della propria consapevolezza, è finalmente libera di muoversi nel mondo, senza più lasciarsi ferire dai giudizi altrui. La radicalità della sua parresia sa essere autentica e trasparente senza temere alcuna incrinatura: insomma, a suo modo la bambina ha trovato il lieto fine.

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Vi confesso che questo esito mi ha lasciato assai sorpreso, dal momento che anche la mia bambina di vetro trova a modo suo un lieto fine, nonostante l’irrimediabile fragilità: anzi, proprio su questo aspetto ho nel tempo lungamente riflettuto. A dir la verità, ho cambiato più volte il finale della storia, adattandomi di volta in volta ai vari accadimenti che si succedevano nella complicatissima vicenda biografica che mi aveva ispirato. Poi, un giorno mi sono arreso all’unica verità che mi pareva plausibile: che la bambina restasse di vetro ma che restasse pur sempre bambina.

Il vetro potrà incrinarsi, forse anche opacizzarsi, ma la lucentezza dello sguardo (e – per Gisèle – dei pensieri) non potrà mai essere infranta.

B. Alemagna, La bambina di vetro, Topipittori, 2019

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C’era una volta… in un antico regno, un re e una regina che regnavano con giustizia e probità, avendo a cuore le sorti del loro popolo.
Un bel giorno, il loro grande amore fu premiato con la nascita di una figlia. Ma – quale angoscioso mistero! – non si trattava di una bambina come le altre, fatta di carne, ossa e di un cuore pulsante. La principessina era fatta di vetro!
A corte lo stupore fu enorme! La bambina piangeva, si nutriva, agitava le braccine e spalancava le piccole mani proprio come qualunque altro bambino: ma era fatta di limpido vetro, fragilissima. Solo i suoi occhi, di un intenso color nocciola, spiccavano da quell’eterea trasparenza e palpitavano, ridevano, gioivano.
Con il passare degli anni, i suoi genitori erano sempre più preoccupati: la bambina voleva correre, saltare, ballare, giocare con gli altri bambini ma loro, ogni volta con un pretesto diverso, glielo proibivano, per paura che cadesse e si frantumasse senza rimedio.
La sera, nel segreto delle proprie stanze, discutevano su cosa fosse giusto fare, ma non riuscivano a prendere una decisione: si rivolsero, così, al fidato consigliere, uomo severo e autorevole.
«Maestà, la principessina è tanto fragile e voi, che avete a cuore il suo bene, non dovreste ascoltare i suoi capricci». I sovrani decisero così di relegare la figlia in una stanza: tutti gli oggetti pericolosi, pesanti o appuntiti furono distrutti o bruciati, mentre quelli indispensabili furono fasciati con stoffe preziose.
Un giorno, la solitudine della triste bambina fu rotta da un topolino, sbucato da chissà dove: a vederlo zampettare per la stanza, ella si divertì molto e si mise a corrergli dietro, finché il consigliere la fermò.
Fu ordinato a un ingegnere di modificare una di quelle macchine da teatro che servono a calare il dio dall’alto, per risolvere le trame più intricate: la principessina vi fu legata e tenuta ben salda. Non poteva più fare alcun movimento: ciononostante i suoi genitori, in preda all’ansia, non riuscivano a staccarle gli occhi di dosso; decisero, così, di trasferirsi nella sua stessa stanza, delegando le faccende del regno al vecchio consigliere. Smisero addirittura di guardarsi, di parlarsi…
Un giorno in cui il consigliere era assente, da una finestra della stanza entrò un usignolo: i sovrani e la bambina seguirono con stupore quel frusciare d’ali, finché l’uccello si posò sulla trave più alta di quell’assurda macchina e parlò.
«Da tempo non volavo su queste terre, che tutti sanno prospere e ben governate. Mi è sembrato, però, che il favore degli déi le abbia abbandonate».
«Magica creatura – rispose turbata la regina – quel che dici è vero: da troppo tempo gli déi ci hanno condannato a un destino avverso! Guarda tu stesso la nostra unica figlia!».
«Vostre Maestà – intimò l’usignolo – non più a lungo la principessa deve restare legata a quest’orrenda macchina, lei che, sotto il fragile vetro, è vita gioiosa e pulsante. Lasciatela correre, giocare e ridere spensierata con i suoi begli occhi nocciola».
I sovrani obiettarono che avrebbe potuto inciampare, cadere, andare in frantumi. «Ma – osservò l’usignolo – solo così la bambina avrà la possibilità di rivelarsi…». E, senza aspettare altra risposta, volò via.
Il re e la regina si guardarono negli occhi e, dopo lungo tempo, presero a parlarsi: avevano ancora paura ma sapevano che il prodigio non poteva essere ignorato. E così, alla fine, decisero di liberare la figlia: la sostennero per le esili braccia di vetro e la aiutarono a muovere i primi passi. «Portatemi in giardino!», sospirò lei.
Appena furono lì, la principessina allungò le mani tremanti verso il cielo affollato di cose e colori; i genitori la guardarono attraverso il velo di molte lacrime.
Poi l’aria si riempì della sua gioiosa risata e la bambina prese a correre felice per il prato!
Quando il severo consigliere rientrò a palazzo, trasalì incredulo: «Maestà, cosa avete fatto? La principessina può cadere da un momento all’altro. Perché non è legata?». Ma il re e la regina non potevano sentirlo: si erano messi a correre e a saltellare assieme alla figlia, incitandola, battendo le mani, ridendo con lei.
Scoprirono così di poter gioire profondamente, nella certezza di aver preso la decisione giusta.

Poi, successe.

La bambina, nel tentativo di evitare una radice, si spostò di colpo, perdendo l’equilibrio e cadendo di schianto su una pietra: si sentì il tonfo sordo del vetro che si incrinava.
Quando si rialzò, tenendosi la gamba, tutti notarono una piccola crepa sul ginocchio: il vetro, tuttavia, era rimasto compatto. Grida di gioia, sussulti di cuore, il gioco riprende.

Da allora il vetro fu segnato altre volte da tante crepe, ma non rovinò mai: e la principessina non smise più di giocare e di sorridere con i suoi lucenti occhi nocciola.

Articolo e fiaba di Giancarlo Chirico

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Che cos’è un bambino? Ovvero indossare gli occhiali giusti…

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Diciamoci la verità: un albo illustrato il cui titolo già contiene una domanda è di per sé, quasi naturalmente, un’ottima occasione per fare filosofia con i bambini, perché ti viene subito voglia di cercare – non dico la risposta esatta, ma – quello che potrebbe essere il nostro personalissimo contributo alla sua definizione… Forse è un po’ questo il segreto di quello straordinario titolo di Wolf Erlbruch – ovviamente, sto parlando de La grande domanda – dove la domanda tanto promessa nel titolo non compare mai e l’intero albo rappresenta una ricchissima carrellata di possibili (e tutte legittime) risposte.

L’albo di cui scrivo oggi è uno dei miei preferiti, quello da cui prendo le mosse ogni volta che tengo un seminario sulla filosofia con gli albi illustrati: Che cos’è un bambino? di Beatrice Alemagna (Topipittori, 2008).

Per chi si mette a fare filosofia con i bambini, assieme ai bambini, al servizio delle loro grandi domande e pregevoli intuizioni, si tratta di una questione che non può essere trascurata: è ai bambini che ci rivolgiamo, ai loro bisogni che guardiamo, è il loro punto di vista che ci interessa coltivare quando ci poniamo l’ambizioso compito di ‘filoso-fare’ assieme a loro. E, dunque, preliminarmente, che cos’è un bambino?

E qui subito il primo ostacolo, neanche uno dei più banali: come faccio a dirlo io, io che sono un adulto? I bambini lo sanno benissimo cosa sono, lo sanno per esperienza diretta: sono bambini e non hanno bisogno di altre spiegazioni. Ma bambini si nasce, mica si diventa; e, soprattutto, lo si è solo per un po’ di tempo, poi passa… e quando passa, di solito, finisce lì… Per carità, c’è sempre la possibilità di evocare un ricordo, un particolare, un colore, una forte emozione, ma a volte sono solo sprazzi di arcobaleno in un cielo piuttosto ordinario.

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Insomma, è già questo il cuore del dilemma: parliamo di bambini, ma lo facciamo da adulti, cioè senza averne (più) una competenza diretta. I bambini ci appaiono spesso bizzarri, vivono delle loro ingarbugliate ma bellissime originalità, ridono e scherzano secondo un codice indecifrabile, scambiandosi sogni a occhi aperti e slanci appassionati, provando a sottrarsi alle nostre (assurde) aspettative nei loro confronti… Noi spesso li sovrastiamo con le nostre altezze, ma senza raggiungerli veramente, senza entrare in contatto con loro: non siamo neanche disposti ad ammettere la possibilità di poter imparare qualcosa da loro. E continuiamo a domandarci: che cos’è un bambino?

Beatrice Alemagna è il pennello e la penna giusti per farci riflettere in maniera nuova intorno a questa domanda e al nostro bisogno di cercare una risposta: e non è senza importanza se questo albo, nonostante i suoi quasi dodici anni di vita, continui a sollecitarci con un taglio narrativo ancora fresco e originalissimo.

Partiamo dai ritratti: i (tanti) bambini che si susseguono nelle sue pagine non sono bambini comuni, non sono stereotipi, immagini già note di tipologie predefinite; non sembrano bambini veri, lo sono davvero! Balzano fuori dalla pagina e vengono proprio qui, in mezzo a noi. Sono ritratti molto grandi, estremamente ravvicinati: se ci pensate bene, è già un bel punto di vista! A ogni pagina siamo un po’ disorientati, istintivamente cerchiamo la giusta misura rispetto al ritratto, riempiamo di sguardi lo spazio tra noi e lui, tra noi e loro. che-cosc3a8-un-bambino-4È quel che succede a chiunque abbia a che fare con i bambini (una classe, un gruppo di lettura, una comunità di ricerca): passi dal gruppo al singolo, dal coro all’assolo, con uno sguardo forse un po’ strabico, quasi divergente, ma sempre dinamico e puntuale. In verità, è quello che succede in ogni relazione autentica: ci avviciniamo per accostarci all’altro, alle sue ragioni, alla sua particolare prospettiva ma, al contempo, abbiamo bisogno di vedere l’insieme, le connessioni, le relazioni tra il suo punto di vista e il mio. Da qualche parte ho letto che questo albo ci costringe a fare fisicamente l’esercizio ‘dei doppi occhiali’ che i presbiti imparano presto a fare: e a ogni cambio di lente, le informazioni aumentano, i contorni cambiano, le figure si arricchiscono di particolari e l’insieme si dettaglia più in profondità. La trovo proprio una bella immagine.

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Sul testo, invece, dovrei tacere, a meno di non dichiarare subito la mia totale e incondizionata ammirazione per quello che ritengo essere un piccolo saggio filosofico, il testo che qualunque filosofo per bambini vorrebbe aver scritto nella vita! Nessuna facile definizione, nessuna analisi preconfezionata, nessuna sintesi superficiale, lo sguardo costantemente rivolto a cogliere la profondità di ciò che è vero, con semplicità.

Un bambino è una persona piccola. È piccolo solo per un po’, poi diventa grande. Cresce senza neanche farci caso… Un bel giorno cambia”.

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A farla da padrone è sempre un senso di forte disorientamento, proprio come davanti ai ritratti: il fatto è che non riusciamo a capire se l’autrice stia parlando di noi, adulti di oggi, che bambini lo siamo stati ma che di colpo siamo cresciuti, o a noi, bambini di ieri, che cerchiamo oggi il modo migliore per rispondere alla domanda sollevata dall’albo.

Ma esiste veramente questo solco a separare ieri e oggi, adulto e bambino? Il fatto è che ci deve essere qualcosa di più forte del disincanto che ci ha disilluso quando, la prima volta, abbiamo visto i fili attaccati alla marionetta, qualcosa che ci permette ancora oggi, da adulti consapevoli, di ridere a crepapelle davanti a uno spettacolo di marionette, nonostante i fili che sappiamo esserci! Non si tratta di “ritornare” al passato (questo lo lasciamo fare ai nostalgici o alle persone che vivono nei ricordi che non hanno saputo costruire), ma di recuperare oggi la radice profonda del nostro immaginale.

Come faccio a rispondere alla domanda? – ci chiedevamo poco fa. Semplice: io la risposta la conosco, sono stato bambino e da qualche parte il mio immaginale continua a saperlo! La meraviglia, la curiosità, lo stupore e l’incanto continuano ad appartenermi ancora oggi, spetta a me lasciarli parlare: “I bambini che decidono di non crescere, non cresceranno mai. Avranno un mistero dentro di sé. Allora anche da grandi si commuoveranno per le piccole cose: un raggio di sole o un fiocco di neve”.

Si tratta di una voce che vuol essere ascoltata “con gli occhi spalancati”, proprio come un bambino! E che, proprio come i bambini, “per addormentarsi, ha bisogno degli occhi gentili. E di una lucina vicina al letto”.

Strani questi occhiali “doppi”: oltre ad adattare la distanza, ingentiliscono lo sguardo. Anche quello verso sé stessi.

Beatrice Alemagna, Che cos’è un bambino?, Topipittori, 2008

Articolo a cura di Giancarlo Chirico

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Cosa diventeremo? Quando una domanda tira l’altra….

Antje Damm, Cosa diventeremo?, Orecchio acerbo 2019

ovvero una domanda tira l’altra

La filosofia può essere considerata come una cartolina postale che è stata scritta con l’intenzione di arrivare a destinazione ma che in realtà non lo fa. La filosofia che raggiunge la destinazione e che si distrugge in quest’ultima cessa di essere filosofia vera. (J. Derrida)

 

Quando ho avuto tra le mani questo albo, singolare e poderoso, mi si sono illuminati gli occhi: non ci vuole mica un filosofo per concludere che un albo (letteralmente) pieno di domande – oltre sessanta – è come una miccia capace di innescare un vero e proprio incendio, sotto forma di lunghe discussioni e indagini articolate. Cominci a sfogliarlo e – boom! – le domande si aprono in altre domande, la curiosità alimenta gli sguardi e gli spunti spingono avanti la ricerca e, intrecciandosi e intersecandosi, mettono in discussione le nostre più solide convinzioni; istintivamente, cominci a stringere gli occhi a fessura, come se volessi scorgere meglio e più chiaramente, non solo intorno a te ma, soprattutto, dentro di te. E pagina dopo pagina le domande si fanno incalzanti e la tua posizione – prima così sicura, nel confortevole rifugio delle nostre abitudini – diventa sempre più scomoda: è il bello del fare filosofia, incamminarsi in un percorso di riflessione mettendo tra parentesi i pregiudizi e aprirsi autenticamente alla conoscenza.

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La prima cosa che ho pensato è che questo libro dovrebbe andare nelle scuole, tra i ragazzi: un albo del genere saprà scomodarli, provocarli, sconquassarli, sollevare polveroni e spalancare prospettive inconsuete, non riuscendo ad accontentarsi di slogan di facciata e di risposte di circostanza. Anche perché il rischio che corrono i nostri giovani, in questa società ultratecnologica, dove le risposte sembrano essere onnipresenti e pervasive, ma prive di un significativo apporto informativo, è la perdita di confidenza con la domanda e la necessità di mettersi in ricerca.

Qualche mese fa, a Palermo, durante un importante festival letterario, mi è capitato di incontrare nello stesso contesto due scuole primarie e una scuola secondaria di primo grado, un gruppo di circa 70 tra bambini e ragazzi: come in altri miei incontri fiabasofici, ho posto il tema a partire dalla lettura di un albo illustrato e ho invitato il gruppo a dire la propria; da subito, ho notato che, mentre i bambini mi incalzavano con osservazioni e domande, anche spiritose e divertenti, i ragazzi più grandicelli assistevano silenziosi, quasi passivi. Ho chiesto loro se avessero domande da fare, per aiutarci nella ricerca e mi hanno risposto che quando hanno una domanda, la girano a Mr. Google e ottengono subito la risposta di cui hanno bisogno! Ma non tutte le domande sono ‘pane’ per i denti di Mr. Google, tant’è che il nostro potente algoritmo si è dovuto arrendere dinanzi a domande cruciali: provate a chiedergli se Dio esiste e poi ditemi se la risposta vi ha soddisfatto….

Ho avuto la fortuna di conoscere Antje Damm a “Più libri più liberi”, in occasione dell’inaugurazione della bellissima mostra organizzata da Orecchio acerbo: ebbene, lei notava la stessa cosa, raccontandomi che i bambini rimangono sempre un po’ spaesati quando scoprono che il suo libro non contiene risposte e che neanche lei che ne è l’autrice le conosce davvero (“ho solo la mia opinione ma non vale di più di quella di ogni singolo lettore”).

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In quell’occasione ho chiesto ad Antje per quale motivo avesse incentrato un “libro fatto di domande” tutto intorno al tema della natura e del nostro rapporto con essa: mi ha risposto che è quello su cui ha riflettuto da sempre, sin da ragazzina. Il papà la accompagnava a fare lunghe passeggiate per i boschi, invitandola a riflettere sulla possibilità che esistesse l’amore tra gli alberi, la complessità della catena alimentare, l’amicizia tra le creature, l’ammirazione verso ciò che è più piccolo, …: e lei non ha fatto altro che tradurre in foto e immagini quelle impressioni poderose, riproponendo quasi le stesse domande e lo stesso desiderio di cercare una risposta.

Trovo molto bello che il filo conduttore del libro non siano domande qualsiasi, ma le domande di una ragazzina che – diventata donna, scrittrice, artista – a distanza di anni e nonostante le tante esperienze, continua a sollevarle: sempre loro, sempre le stesse, perché ci sono domande che non si esauriscono mai (alla faccia di Mr. Google). Mi ha ricordato l’esempio di Talete e dei primissimi filosofi – che verranno poi detti fisiologi o naturalisti – che sosteneva che il principio costitutivo del mondo fosse l’acqua, a partire dall’osservazione del moto delle onde o dal fatto che l’interno dei frutti, che conserva i semi, è umido: cominciamo a fare filosofia – o, più semplicemente, a sollevare domande – a partire da quel che ci circonda, perché abbiamo bisogno di dare un senso alla nostra esperienza quotidiana. Che, senza il pepe delle nostre domande, rischierebbe di scorrere via, senza lasciare segni!

Allora, portiamolo questo libro nelle scuole, lasciamolo in mano ai ragazzi e vediamo cosa hanno da raccontarci… e, dal momento che la nostra generazione prende in prestito proprio da loro, mettiamoci a nostra volta in gioco, condividendo il nostro punto di vista.

Vi racconto la mia esperienza. Ho diviso la classe in 4 gruppi, dando a ciascun gruppo l’elenco delle domande presenti nel libro, chiedendo loro di sceglierne una soltanto: leggevano, commentavano, ridevano, “sono domande assurde! ma come c’ha pensato!”, oppure “a questa una volta c’ho pensato anch’io, ti giuro!”. Una volta scelta la domanda, ho tirato fuori il libro e abbiamo curiosato tra le sue pagine, per scoprire in che modo l’autrice l’avesse interpretata: così è successo che una domanda apparentemente assurda (“I pomodori hanno paura di noi?”) abbia provocato un’interessantissima discussione sul modo in cui mangiamo e sulle scelte che facciamo, che non sono mai neutre e determinano sempre un cambiamento. A quel punto le domande si sono moltiplicate: “com’è possibile che un hamburger costi solo un euro? perché le etichette dei prodotti alimentari sono così difficili da leggere? perché è difficile cambiare le proprie abitudini alimentari?…”.

E di tanto in tanto, ritornavamo al libro, per amplificare i nostri spunti di riflessione e aggiungere altri elementi da valutare che, lungi dal complicare il nostro quadro di riferimento, ci hanno aiutato a capire quanto sia ricca e complessa la rete che ci tiene tutti uniti, collegati, dipendenti gli uni dagli altri: “abbiamo davvero bisogno della natura? a cosa dovremmo fare attenzione quando usiamo la natura? siamo autorizzati a mangiare gli animali? qual è il contrario di natura?”.

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È molto probabile che un percorso di questo tipo sia destinato a non approdare ad alcuna risposta definitiva e questo può lasciare interdetti i ragazzi che, all’inizio della discussione, magari ci speravano: ma è proprio qui che l’albo della Damm rivela la sua dimensione più autenticamente filosofica. Se, come dice il filosofo francese Bergson, “filosofare consiste nell’invertire la direzione abituale del lavoro del pensiero”, allora questo albo riesce davvero a farci fare filosofia, dal momento che nessuna delle sue pagine può lasciarci indifferenti, rappresentando piuttosto il momento buono per un importante cambio di rotta, prima mentale, poi pratico, prima individuale e poi collettivo.

Cosa diventeremo dipende da noi, ciascuno di noi… beh, questo forse si era capito!

Articolo a cura di Giancarlo Chirico