L’inclusione nella scuola come esperienza dell’altro

Da quello che abbiamo raccontato negli articoli precedenti, l’inclusione appare come una sorta di concetto ombrello, comprensivo di più significati, sotto il quale possiamo raccogliere tutte quelle politiche – a livello sociale e collettivo, ma anche a livello di azioni personali – che permettono di valorizzare l’altro e di rimuovere gli ostacoli che gli impediscono di leggere la relazione, viverla attivamente e farla crescere.

Se ci pensiamo bene, la scuola è il primo contesto in cui l’inclusione merita di operare in assoluta pienezza: intanto, perché ci si ritrova davvero tutti insieme, senza possibilità di scegliere o di fare selezione, poi perché ad essere in gioco è il percorso educativo dei nostri figli, ovvero la loro crescita individuale e la realizzazione di una possibile nuova idea di società. Dal momento che, nella dinamica scolastica, i nostri figli impareranno a leggere i contesti relazionali, a intervenire per modificarli e ad agire per esprimere se stessi diventa fondamentale che possano fare esperienza di una scuola davvero per tutti: partecipativa, collaborativa, ospitale.

Come recitano le Policy Guidelines on Inclusion in Education dell’Unesco (2009), “la scuola inclusiva è un processo di fortificazione delle capacità del sistema d’istruzione di raggiungere tutti gli studenti. Un sistema scolastico “inclusivo” può essere creato solamente se le scuole comuni diventano più inclusive. In altre parole se diventano migliori nell’educazione di tutti i bambini della loro comunità”.

È evidente che tutto questo richieda dei notevoli cambiamenti sul contesto scolastico: a partire dalla cultura organizzativa, per improntarla all’accoglienza e orientarla verso la comunità, nella cura delle relazioni, per attivare un sistema progettuale partecipato, democratico e trasparente e, infine, nell’azione educativa, con il coinvolgimento attivo di tutti gli operatori. Un’azione davvero inclusiva non è improntata all’emergenza e al bisogno occasionale, come se si trattasse di “normalizzare” una situazione di bisogno – che troppo semplicisticamente viene fatta coincidere con il singolo bambino – per integrarla nel contesto relazionale in cui deve poter esprimersi; piuttosto, l’azione inclusiva risponde a una logica aprioristica e strutturale, che prescinde dall’emergenza e che si fa autentico cambiamento culturale.

Quello che hanno in comune le più virtuose esperienze scolastiche ed educative inclusive degli ultimi anni (pensiamo all’esempio di Maria Montessori, o di Raffaele Malaguzzi, fino ai modelli di Marco Orsi o di Giuseppina Pizzigoni), è proprio l’attenzione rivolta alle condizioni educative in senso ampio (gli spazi, gli strumenti e le relazioni) che permettano l’apprendimento differenziato, ovvero rispettoso delle potenzialità di ciascuno. Se ci pensiamo bene, è la mediazione la chiave per costruire una cultura scolastica davvero inclusiva, per sollecitare la comunicazione autentica, la condivisione, la cooperazione e la collaborazione.

Per chi volesse approfondire, consigliamo la consultazione di questa bella presentazione curata da Mondadori Education su “Bisogni educativi speciali e scuola inclusiva”; oppure la lettura di questo articolo su “Formazione e inclusione: il dibattito sull’evoluzione del docente specializzato”, di Patrizia Gaspari dell’Università degli Studi di Urbino Carlo Bo, con una ricca bibliografia finale.