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Come si chiama la felicità, ovvero La scimmia

3/4/2020

I venerdì fiabasofici

Autore: Giancarlo Chirico

La felicità dell’uomo non resta mai nello stesso punto.

Erodoto

 

In questi tempi un po’ balordi, nei quali il tempo sembra essersi fermato e i nostri pensieri tendono ad accartocciarsi intorno a un senso neanche tanto velato di paura e di inquietudine, ho riletto con rinnovata attenzione questo bellissimo albo edito da Zoolibri, scritto da Davide Calì e magicamente illustrato da Gianluca Folì.

copertina

Un albo dallo straordinario piglio narrativo – profondo, problematico, mai banale – che si spiega lungo un bianco sempre presente, che in altri albi avrebbe fatto semplicemente da sfondo e che qui, invece, è assoluto protagonista. A partire dalla copertina: una scimmia bianca spunta dalle fronde di un albero, osservandomi a testa in giù – il rovesciamento di ogni prospettiva – e mi porge un fiore bianco… che gentile! Ma il retro della copertina racconta altri sorprendenti aspetti di questa simpatica scimmietta: scarpe all’ultima moda e una coda tutta sporca, con qualche fogliolina ancora attaccata. Possibile che questa scimmia cammini con le scarpe?

 

Siamo già dentro la storia: la scimmia si chiama Bruno, vive in uno zoo e ama osservare gli uomini che la osservano.retro Ancora una volta il ribaltamento della prospettiva, oggetto e soggetto: io guardo il mondo, ma il mondo mi osserva e muta continuamente sotto i miei stessi occhi, così come – ne dovrei pur essere conscio – io muto sotto i suoi occhi.

A Bruno piacciono i vestiti, ma – osserva giustamente la mamma – lui è una scimmia: che se ne fa dei vestiti? Basta una frase per ristabilire di colpo le tradizionali prospettive: tu sei una scimmia, fai la scimmia, sarai una scimmia, farai sempre la scimmia! Quando i pregiudizi sono così forti da impedire ogni cambiamento e disinnescare ogni trasformazione, siamo costretti ad arrenderci: Il mondo non cambierà mai! Ma Bruno è più forte dei pregiudizi: e, infatti, lo vediamo subito a testa in giù e, poi, nella doppia pagina successiva, più vicino a una famigliola umana – che, chissà come, si è ritrovata su un alto ramo dello stesso albero – che alla sua. Eh sì, perché Bruno ha imparato a capire la lingua umana e ha scoperto che una volta gli uomini erano scimmie: quindi – ah, l’infallibile logica aristoteliana! – anche lui un giorno potrà diventare una persona! I milioni di anni dell’evoluzione umana, i suoi svariati tentativi e i numerosi fallimenti, si condensano in pochi attimi e quasi annichiliscono davanti allo sguardo curioso e divertito della scimmietta che comincia a sognare: nonostante la mamma lo rassicuri che non è possibile, lui sogna, sogna forte, quasi ad alta voce! E noi lo sentiamo distintamente.

E dopo il sognare – inesorabile, puntuale, quasi liberatorio – giunge il pensare: dal mito alla filosofia, il passaggio si ripete ogni volta uguale a se stesso. Bruno comincia a ‘riflettere’: “Cosa vuol dire?”, gli chiede il padre. “È come pensare. Però più forte”, risponde Bruno. “E a cosa serve”, incalza il papà. “Non lo so, forse a niente. È solo bello”.

Giunge intrigante e inaspettato questo giudizio estetico da parte di Bruno: quando una potenza è agli albori della sua realizzazione, quando ancora non ne conosciamo tutte le possibilità, quando ne percepiamo appena il significato, la portata, le vibrazioni di fondo, non sappiamo bene in cosa, non sappiamo bene come, ma ci piace, è bello. Bruno forse non conosce ancora la parola, ma Kant gli avrebbe suggerito ‘sublime’: è l’energia intensa e primordiale con la quale il pensiero pensa se stesso, si pro-voca e si stupisce quando le cose prendono forma e si fanno più chiare e definite. La bellezza dell’atto originario del demiurgo formatore del mondo!

la-scimmia-impaginato-interno_page_11Succede che un gesto apparentemente banale – che a Bruno serve per conciliare pensieri e riflessioni – viene notato da alcune persone che vogliono fare di lui una vera e propria star. In un solo istante, si consuma subito il distacco con la propria gente: “forse diventerai una persona come desideri. Ma allora credi che sarai più felice? Ecco rifletti su questo”, gli dice il padre. Insomma, credevo di avere tra le mani un albo che parlasse di identità e, invece, il padre di Bruno solleva un’altra questione, destinata a diventare centrale: dove risiede la felicità di una persona?

Finalmente, Bruno si avvicina agli umani: diventa come loro, veste, parla e si muove come loro, impara addirittura a suonare uno strumento musicale, ed è bravissimo. Ma l’evoluzione darwiniana non può essere condensata in poche pagine: e, infatti, Bruno non è una persona, non gli assomiglia neanche lontanamente! È bravo a parlare, per essere una scimmia; veste molto elegante, per essere una scimmia; ma puzza, puzza proprio come una scimmia. E, ritornando alla questione sollevata dal padre, Bruno per la prima volta si fa dubbioso: probabilmente, una scimmia può essere felice solo in mezzo ad altre scimmie…

la-scimmia-impaginato-interno_page_04Alla fine, decide di tornare allo zoo, solo che neanche lì è felice: l’incomunicabilità con la propria specie è diventata totale, nessuno vuole sentirlo suonare, nessuno lo capisce quando parla. Ed è reciproca: a Bruno non piace essere nudo e, soprattutto, non sopporta la puzza di scimmia! Ebbene sì: Bruno sente le scimmie puzzare – proprio come le persone sentivano Bruno puzzare.

C’è questa doppia pagina che trovo geniale! Sfondo bianco, nuvoloni densi e grigi, come ricordi sfumati e sbiaditi, oppure come presenze vaghe ma minacciose: una forma di scimmia, altera, distaccata, un po’ ostile e due braccia che provano a cingere, solo che non mi sembra abbiano intenzioni amichevoli, si addensano intorno a Bruno che, a sua volta, non è affatto aperto e conciliante. Tutt’altro: si copre il naso, sente la puzza – quasi la sentiamo anche noi! – in un gesto che è di vera chiusura. Ricordo che ai corsi di teatro una delle prime cose che insegnano agli aspiranti attori è: rivolti sempre verso il pubblico e mai coprire la bocca, altrimenti la voce non arriva a nessuno! Ebbene, è evidente che Bruno non vuole proprio arrivare da nessuna parte; e non vuole che niente da fuori gli arrivi!

La creatura più sola dell’universo”: e la solitudine, sovente, genera ostilità. Ma, soprattutto, genera desolazione.

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Folì ci regala un’altra straordinaria doppia pagina: Bruno, di pelo bianco, che quasi scompare nel bianco dello sfondo (vi ricordate cosa dicevamo della funzione del bianco in questo albo?); è una figura scontornata, senza alcuna definizione, senza identità. Le mani sono intrecciate, trasmettono paura; i piedi sono spaiati: uno è nudo, l’altro ha una scarpa… Né scimmia, né umano!

Ciascuno, nella propria irripetibile unicità, è solo: il fatto è che se ci abbandonassimo a questo radicale convincimento saremmo destinati a essere infelici per sempre! Ma per fortuna il mondo sa sorprenderci: Bruno incontra Greta, una scimmia come lui che, proprio come lui, non vuole essere una scimmia, anche se non riesce a essere come un umano. Una scimmia che sa suonare, sa parlare, ama vestirsi…

E proprio nel momento in cui la storia sembra dipanarsi, succede qualcosa di molto profondo, che ci invita ancora una volta a riflettere: nell’abbraccio di Buno e Greta – dovremo ritornare su questo tema! – le due identità (che fino a quel momento si erano definite solo in termini negativi: né questo, né quello) riescono finalmente a trovare il proprio centro. Un semplice gesto diventa la chiave narrativa per rivelare qualcosa di prodigioso: il riconoscimento di sé a partire dall’altro è il fondamento di ogni sincera autoconsapevolezza ed è in grado di spazzare via ogni pregiudizio e di aprire all’autentica felicità.

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Vi ricordate quel che aveva detto il papà a Bruno? Prova a riflettere sulla felicità e sul fatto che essa possa dipendere o meno dal tuo essere scimmia o essere umano! Ebbene, Bruno ora ha la risposta: “so di essere stato una scimmia” – e ora non lo sono più – “e so di non essere una persona” – e ora so che non lo sarò mai veramente! Eppure, da questa doppia negazione, che in altri momenti sarebbe stata fonte di angoscia, prendono forma tutte le mie possibilità e la mia felicità si scopre totalmente libera (e la mia libertà finalmente felice!). E questo prodigio ha solo un nome: Bruno!

Calì, G. Folì, La scimmia, Zoolibri 2014

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Le due bambine di vetro, ovvero il coraggio della parresia

Quando ho avuto tra le mani La bambina di vetro, l’ultimo albo di Beatrice Alemagna per Topipittori, ho avuto come un sussulto. Eh sì, perché qualche tempo fa anch’io avevo scritto una fiaba con lo stesso titolo, una fiaba che, per lungo tempo ho mantenuto nascosta: il fatto è che quando scrivi una storia che riflette così da vicino la tua esperienza, può succedere che qualcosa non ti convinca del tutto e senti il bisogno di continuare a meditarla.

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Ora, stringevo tra le mani una storia con lo stesso titolo, raccontato da una delle mie autrici preferite e guardavo un volto così simile a quello che avevo immaginato io: di quale storia si sarebbe trattato?

L’autrice dichiara subito il suo debito verso Gianni Rodari che, in Favole al telefono, aveva raccontato la prodigiosa vicenda di Giacomo di Cristallo, tant’è che «si potrebbe dire che Gisèle, la protagonista di questo libro, sia la sorellina francese di Giacomo (nata a Parigi e mai pubblicata prima d’ora in Italia)». Conoscevo la fiaba di Rodari ma non aveva molto a che fare con la mia principessina di vetro: lei e Giacomo erano così diversi e, poi – mi dicevo – l’ispirazione abitava proprio a casa mia. Ma, dal momento che certi legami letterari sono molto più forti di quel che uno scrittore sia disposto ad ammettere, ho deciso di rileggere la mia fiaba, proprio a partire dall’albo che avevo tra le mani …

Nata completamente di vetro, Gisèle è trasparente e fragile allo stesso tempo ma, più di ogni fragilità fisica, teme e patisce quella emotiva, non potendo sopportare che la gente riesca a sbirciare tra i suoi pensieri: «la gente si arrabbiava con lei, continuamente: “Non riesci a smettere di pensare?”; oppure: “Non ti vergogni di mostrare questi orrori?». Incapace di non farsi scalfire dai giudizi delle persone, a un certo punto Gisèle decide di partire, fuggire, allontanarsi da tutto quanto; finirà, tuttavia, per dover ammettere che non dipende tanto dalla gente, ma che è una condizione legata alla sua unicità.

Mentre sfogliavo le pagine di questo albo che – quale prodigio artistico! – si faceva esso stesso trasparente come vetro, mi tremava la mano: anche per Gisèle – come per la mia principessina – è impossibile riconoscersi simile agli altri bambini. Entrambe sono troppo diverse e non potranno fare nulla per cambiare le cose: potranno solo fare i conti con la loro diversità. Solo che, per un’esigenza biografica prima che narrativa, io avevo scelto di raccontare la vicenda dal punto di vista dei genitori, mentre l’Alemagna mi offriva, adesso, proprio quello della bambina: mentre io ero come paralizzato davanti alla fragilità di quella creatura miracolosa e mi prodigavo per proteggerla a ogni costo, Beatrice mi spingeva a guardare oltre la trasparenza del cristallo, dritto nel cuore di Gisèle, alla radice del suo infinito coraggio, della sua voglia di ridere, giocare, librarsi leggera.

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Gisèle fa un percorso dentro se stessa e, come il suo fratellino putativo, si appella con forza all’esperienza della verità: nella fiaba di Rodari, questo riferimento è addirittura esplicito, allorché nel finale è detto che «la verità è più forte di qualsiasi cosa, più luminoso del giorno, più terribile di un uragano»; proprio in questo sta il senso della vittoria di Giacomo sull’insopportabile tiranno. Dal canto suo, l’Alemagna, pur ribadendo questo insopprimibile bisogno di verità, prova ad accompagnare Gisèle per un altro itinerario, alla fine del quale scopre che essere veri significa rivendicare senza compromessi la propria identità, senza rinunciarvi mai; significa praticare il coraggio della parresia, l’antica pratica filosofica greca consistente nel mantenere la propria condotta di vita sempre aderente al vero.

Secondo il filosofo francese Michel Foucault chi pratica la parresia mette a rischio la propria vita, dal momento che potrebbe urtare la sensibilità del proprio interlocutore, costringendolo a ribattere in maniera aggressiva al pregio cristallino della verità. E qui passa la distanza tra i nostri due personaggi: Giacomo, quasi fosse un novello Socrate, nonostante sia messo in catene, continua a testimoniare e a risplendere; Gisèle, invece, giunta al centro della propria consapevolezza, è finalmente libera di muoversi nel mondo, senza più lasciarsi ferire dai giudizi altrui. La radicalità della sua parresia sa essere autentica e trasparente senza temere alcuna incrinatura: insomma, a suo modo la bambina ha trovato il lieto fine.

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Vi confesso che questo esito mi ha lasciato assai sorpreso, dal momento che anche la mia bambina di vetro trova a modo suo un lieto fine, nonostante l’irrimediabile fragilità: anzi, proprio su questo aspetto ho nel tempo lungamente riflettuto. A dir la verità, ho cambiato più volte il finale della storia, adattandomi di volta in volta ai vari accadimenti che si succedevano nella complicatissima vicenda biografica che mi aveva ispirato. Poi, un giorno mi sono arreso all’unica verità che mi pareva plausibile: che la bambina restasse di vetro ma che restasse pur sempre bambina.

Il vetro potrà incrinarsi, forse anche opacizzarsi, ma la lucentezza dello sguardo (e – per Gisèle – dei pensieri) non potrà mai essere infranta.

B. Alemagna, La bambina di vetro, Topipittori, 2019

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C’era una volta… in un antico regno, un re e una regina che regnavano con giustizia e probità, avendo a cuore le sorti del loro popolo.
Un bel giorno, il loro grande amore fu premiato con la nascita di una figlia. Ma – quale angoscioso mistero! – non si trattava di una bambina come le altre, fatta di carne, ossa e di un cuore pulsante. La principessina era fatta di vetro!
A corte lo stupore fu enorme! La bambina piangeva, si nutriva, agitava le braccine e spalancava le piccole mani proprio come qualunque altro bambino: ma era fatta di limpido vetro, fragilissima. Solo i suoi occhi, di un intenso color nocciola, spiccavano da quell’eterea trasparenza e palpitavano, ridevano, gioivano.
Con il passare degli anni, i suoi genitori erano sempre più preoccupati: la bambina voleva correre, saltare, ballare, giocare con gli altri bambini ma loro, ogni volta con un pretesto diverso, glielo proibivano, per paura che cadesse e si frantumasse senza rimedio.
La sera, nel segreto delle proprie stanze, discutevano su cosa fosse giusto fare, ma non riuscivano a prendere una decisione: si rivolsero, così, al fidato consigliere, uomo severo e autorevole.
«Maestà, la principessina è tanto fragile e voi, che avete a cuore il suo bene, non dovreste ascoltare i suoi capricci». I sovrani decisero così di relegare la figlia in una stanza: tutti gli oggetti pericolosi, pesanti o appuntiti furono distrutti o bruciati, mentre quelli indispensabili furono fasciati con stoffe preziose.
Un giorno, la solitudine della triste bambina fu rotta da un topolino, sbucato da chissà dove: a vederlo zampettare per la stanza, ella si divertì molto e si mise a corrergli dietro, finché il consigliere la fermò.
Fu ordinato a un ingegnere di modificare una di quelle macchine da teatro che servono a calare il dio dall’alto, per risolvere le trame più intricate: la principessina vi fu legata e tenuta ben salda. Non poteva più fare alcun movimento: ciononostante i suoi genitori, in preda all’ansia, non riuscivano a staccarle gli occhi di dosso; decisero, così, di trasferirsi nella sua stessa stanza, delegando le faccende del regno al vecchio consigliere. Smisero addirittura di guardarsi, di parlarsi…
Un giorno in cui il consigliere era assente, da una finestra della stanza entrò un usignolo: i sovrani e la bambina seguirono con stupore quel frusciare d’ali, finché l’uccello si posò sulla trave più alta di quell’assurda macchina e parlò.
«Da tempo non volavo su queste terre, che tutti sanno prospere e ben governate. Mi è sembrato, però, che il favore degli déi le abbia abbandonate».
«Magica creatura – rispose turbata la regina – quel che dici è vero: da troppo tempo gli déi ci hanno condannato a un destino avverso! Guarda tu stesso la nostra unica figlia!».
«Vostre Maestà – intimò l’usignolo – non più a lungo la principessa deve restare legata a quest’orrenda macchina, lei che, sotto il fragile vetro, è vita gioiosa e pulsante. Lasciatela correre, giocare e ridere spensierata con i suoi begli occhi nocciola».
I sovrani obiettarono che avrebbe potuto inciampare, cadere, andare in frantumi. «Ma – osservò l’usignolo – solo così la bambina avrà la possibilità di rivelarsi…». E, senza aspettare altra risposta, volò via.
Il re e la regina si guardarono negli occhi e, dopo lungo tempo, presero a parlarsi: avevano ancora paura ma sapevano che il prodigio non poteva essere ignorato. E così, alla fine, decisero di liberare la figlia: la sostennero per le esili braccia di vetro e la aiutarono a muovere i primi passi. «Portatemi in giardino!», sospirò lei.
Appena furono lì, la principessina allungò le mani tremanti verso il cielo affollato di cose e colori; i genitori la guardarono attraverso il velo di molte lacrime.
Poi l’aria si riempì della sua gioiosa risata e la bambina prese a correre felice per il prato!
Quando il severo consigliere rientrò a palazzo, trasalì incredulo: «Maestà, cosa avete fatto? La principessina può cadere da un momento all’altro. Perché non è legata?». Ma il re e la regina non potevano sentirlo: si erano messi a correre e a saltellare assieme alla figlia, incitandola, battendo le mani, ridendo con lei.
Scoprirono così di poter gioire profondamente, nella certezza di aver preso la decisione giusta.

Poi, successe.

La bambina, nel tentativo di evitare una radice, si spostò di colpo, perdendo l’equilibrio e cadendo di schianto su una pietra: si sentì il tonfo sordo del vetro che si incrinava.
Quando si rialzò, tenendosi la gamba, tutti notarono una piccola crepa sul ginocchio: il vetro, tuttavia, era rimasto compatto. Grida di gioia, sussulti di cuore, il gioco riprende.

Da allora il vetro fu segnato altre volte da tante crepe, ma non rovinò mai: e la principessina non smise più di giocare e di sorridere con i suoi lucenti occhi nocciola.

Articolo e fiaba di Giancarlo Chirico

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La domanda non è mai più grande della risposta

 

Che cosa rende filosofi? Il coraggio di non serbare nel proprio cuore alcuna domanda.

(Arthur Schopenhauer)

 

Quando mi chiedono com’è possibile fare filosofia a partire dagli albi illustrati, sono solito citare a menadito alcuni albi, alcuni titoli – diciamo così – infallibili, ‘esemplari’: in questo elenco non può mancare il capolavoro di Wolf Erlbruch, non tanto perché notissimo e pluripremiato e neppure per le suggestioni derivanti dal titolo, ma proprio per il modo in cui la narrazione si fa carico della ‘grande domanda’ e, dunque, del tentativo – quello sì, autenticamente filosofico – di darvi risposta.

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Una grande domanda sembrerebbe presupporre la necessità di una risposta altrettanto grande, una risposta capace di essere definitiva e risolutiva: sappiamo che non è così, tant’è che la storia della filosofia non rappresenta affatto una mitologia da imparare a memoria e chi se ne occupa sa quanto sia necessario saper argomentare compiutamente il proprio pensiero, per permettere all’interlocutore di comprenderlo e di ribattere. La prospettiva da cui muove Erlbruch è quella di presentare una carrellata di possibili risposte alla “grande domanda”, non già risposte astratte e preconfezionate, ma testimonianze dirette di persone in carne e ossa – e non solo…

Ciascuna di queste risposte è vera dal punto di vista di colui che la fornisce, tant’è che lui ci mette la faccia, parla in prima persona, occupa tutta la pagina e fa appello alla propria specifica esperienza: e a mano a mano che le pagine scorrono, l’attenzione del lettore non è più rivolta alla (grande) domanda cui fa riferimento il titolo, ma proprio alla variegata ricchezza di così tante risposte, tutte convincenti ed efficaci, perché profondamente autentiche.

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Erlbruch non si accontenta di passare in rassegna i vari personaggi interpellati e le loro argomentate risposte: preferisce piuttosto instaurare tra loro una vivace dialettica! Lungo la narrazione si alternano, si succedono, si contrappuntano risposte e protagonisti completamente diversi, in una sorta di staffetta nient’affatto lineare. Nasce quasi il sospetto che la risposta alla ‘grande domanda’ debba essere non semplicemente grande ma addirittura ‘enorme’, radicandosi nella totalità complessiva delle risposte date: non la loro mera sommatoria (che rischia di diluire, se non di disperdere, la cifra specifica dell’apporto di ciascuno) ma proprio l’andamento dialettico del loro alternarsi, confrontarsi, ribaltarsi l’una nell’altra, rilanciarsi l’una a partire dall’altra, e così via. Si succedono le risposte, proprio come si sfogliano le pagine dell’albo, scorrono i volti dei protagonisti e si inseguono le rispettive voci, ciascuna con il proprio timbro, tono e colore, nonché il valore aggiunto dei propri contenuti.

Ma allora questo è un libro destinato a non esaurirsi mai! Letta l’ultima pagina, possiamo ricominciare daccapo (o nel mezzo) e rileggere le risposte, cambiandone l’ordine, passando dall’una all’altra, ritornando indietro, saltando avanti… Da questo punto di vista, abbiamo tra le mani un vero e proprio ‘piccolo manuale di filosofia’: solo che i protagonisti non sono Platone, Spinoza o Hegel ma un pugile, un marinaio o un’anatra… E, a ben vedere, non c’è una sola ragione per la quale il punto di vista di un grande filosofo debba essere per definizione più autorevole di quello di un marinaio, di un pugile o persino di un’anatra, dal momento che ciascuno di noi ha le proprie ragioni – il proprio vissuto, la propria esperienza, le scelte fatte – che, se ben argomentate, rendono autorevole la nostra risposta.

Allora non ci sorprende affatto che l’ultima pagina dell’albo ci chiami letteralmente in causa, affinché anche la nostra voce possa dare il proprio contributo alla ricerca collettiva, nella speranza – perché no? – di imprimervi la svolta decisiva. E forti di questa consapevolezza, non tiriamoci indietro, allora: uniamo la nostra voce a quella degli strambi protagonisti di questo incredibile albo e sentiamoci legittimati a dire la nostra opinione, pronti ad argomentarla e a cambiarla, quando ce lo chiede la nostra esperienza; magari aggiungendo altri fogli all’ultima pagina, tutti quelli di cui avremo bisogno.

E a pensarci bene, potrebbe ben succedere che, nel tempo, arrivi a cambiare addirittura la grande domanda…

Ma, a proposito: qual era la grande domanda?

Anche quando viene chiusa la bocca, la domanda resta aperta.

(Stanisław Jerzy Lec)

Wolf Erlbruch, La grande domanda, Edizioni E/O, 2004

Articolo di Giancarlo Chirico

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Che cos’è un bambino? Ovvero indossare gli occhiali giusti…

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Diciamoci la verità: un albo illustrato il cui titolo già contiene una domanda è di per sé, quasi naturalmente, un’ottima occasione per fare filosofia con i bambini, perché ti viene subito voglia di cercare – non dico la risposta esatta, ma – quello che potrebbe essere il nostro personalissimo contributo alla sua definizione… Forse è un po’ questo il segreto di quello straordinario titolo di Wolf Erlbruch – ovviamente, sto parlando de La grande domanda – dove la domanda tanto promessa nel titolo non compare mai e l’intero albo rappresenta una ricchissima carrellata di possibili (e tutte legittime) risposte.

L’albo di cui scrivo oggi è uno dei miei preferiti, quello da cui prendo le mosse ogni volta che tengo un seminario sulla filosofia con gli albi illustrati: Che cos’è un bambino? di Beatrice Alemagna (Topipittori, 2008).

Per chi si mette a fare filosofia con i bambini, assieme ai bambini, al servizio delle loro grandi domande e pregevoli intuizioni, si tratta di una questione che non può essere trascurata: è ai bambini che ci rivolgiamo, ai loro bisogni che guardiamo, è il loro punto di vista che ci interessa coltivare quando ci poniamo l’ambizioso compito di ‘filoso-fare’ assieme a loro. E, dunque, preliminarmente, che cos’è un bambino?

E qui subito il primo ostacolo, neanche uno dei più banali: come faccio a dirlo io, io che sono un adulto? I bambini lo sanno benissimo cosa sono, lo sanno per esperienza diretta: sono bambini e non hanno bisogno di altre spiegazioni. Ma bambini si nasce, mica si diventa; e, soprattutto, lo si è solo per un po’ di tempo, poi passa… e quando passa, di solito, finisce lì… Per carità, c’è sempre la possibilità di evocare un ricordo, un particolare, un colore, una forte emozione, ma a volte sono solo sprazzi di arcobaleno in un cielo piuttosto ordinario.

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Insomma, è già questo il cuore del dilemma: parliamo di bambini, ma lo facciamo da adulti, cioè senza averne (più) una competenza diretta. I bambini ci appaiono spesso bizzarri, vivono delle loro ingarbugliate ma bellissime originalità, ridono e scherzano secondo un codice indecifrabile, scambiandosi sogni a occhi aperti e slanci appassionati, provando a sottrarsi alle nostre (assurde) aspettative nei loro confronti… Noi spesso li sovrastiamo con le nostre altezze, ma senza raggiungerli veramente, senza entrare in contatto con loro: non siamo neanche disposti ad ammettere la possibilità di poter imparare qualcosa da loro. E continuiamo a domandarci: che cos’è un bambino?

Beatrice Alemagna è il pennello e la penna giusti per farci riflettere in maniera nuova intorno a questa domanda e al nostro bisogno di cercare una risposta: e non è senza importanza se questo albo, nonostante i suoi quasi dodici anni di vita, continui a sollecitarci con un taglio narrativo ancora fresco e originalissimo.

Partiamo dai ritratti: i (tanti) bambini che si susseguono nelle sue pagine non sono bambini comuni, non sono stereotipi, immagini già note di tipologie predefinite; non sembrano bambini veri, lo sono davvero! Balzano fuori dalla pagina e vengono proprio qui, in mezzo a noi. Sono ritratti molto grandi, estremamente ravvicinati: se ci pensate bene, è già un bel punto di vista! A ogni pagina siamo un po’ disorientati, istintivamente cerchiamo la giusta misura rispetto al ritratto, riempiamo di sguardi lo spazio tra noi e lui, tra noi e loro. che-cosc3a8-un-bambino-4È quel che succede a chiunque abbia a che fare con i bambini (una classe, un gruppo di lettura, una comunità di ricerca): passi dal gruppo al singolo, dal coro all’assolo, con uno sguardo forse un po’ strabico, quasi divergente, ma sempre dinamico e puntuale. In verità, è quello che succede in ogni relazione autentica: ci avviciniamo per accostarci all’altro, alle sue ragioni, alla sua particolare prospettiva ma, al contempo, abbiamo bisogno di vedere l’insieme, le connessioni, le relazioni tra il suo punto di vista e il mio. Da qualche parte ho letto che questo albo ci costringe a fare fisicamente l’esercizio ‘dei doppi occhiali’ che i presbiti imparano presto a fare: e a ogni cambio di lente, le informazioni aumentano, i contorni cambiano, le figure si arricchiscono di particolari e l’insieme si dettaglia più in profondità. La trovo proprio una bella immagine.

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Sul testo, invece, dovrei tacere, a meno di non dichiarare subito la mia totale e incondizionata ammirazione per quello che ritengo essere un piccolo saggio filosofico, il testo che qualunque filosofo per bambini vorrebbe aver scritto nella vita! Nessuna facile definizione, nessuna analisi preconfezionata, nessuna sintesi superficiale, lo sguardo costantemente rivolto a cogliere la profondità di ciò che è vero, con semplicità.

Un bambino è una persona piccola. È piccolo solo per un po’, poi diventa grande. Cresce senza neanche farci caso… Un bel giorno cambia”.

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A farla da padrone è sempre un senso di forte disorientamento, proprio come davanti ai ritratti: il fatto è che non riusciamo a capire se l’autrice stia parlando di noi, adulti di oggi, che bambini lo siamo stati ma che di colpo siamo cresciuti, o a noi, bambini di ieri, che cerchiamo oggi il modo migliore per rispondere alla domanda sollevata dall’albo.

Ma esiste veramente questo solco a separare ieri e oggi, adulto e bambino? Il fatto è che ci deve essere qualcosa di più forte del disincanto che ci ha disilluso quando, la prima volta, abbiamo visto i fili attaccati alla marionetta, qualcosa che ci permette ancora oggi, da adulti consapevoli, di ridere a crepapelle davanti a uno spettacolo di marionette, nonostante i fili che sappiamo esserci! Non si tratta di “ritornare” al passato (questo lo lasciamo fare ai nostalgici o alle persone che vivono nei ricordi che non hanno saputo costruire), ma di recuperare oggi la radice profonda del nostro immaginale.

Come faccio a rispondere alla domanda? – ci chiedevamo poco fa. Semplice: io la risposta la conosco, sono stato bambino e da qualche parte il mio immaginale continua a saperlo! La meraviglia, la curiosità, lo stupore e l’incanto continuano ad appartenermi ancora oggi, spetta a me lasciarli parlare: “I bambini che decidono di non crescere, non cresceranno mai. Avranno un mistero dentro di sé. Allora anche da grandi si commuoveranno per le piccole cose: un raggio di sole o un fiocco di neve”.

Si tratta di una voce che vuol essere ascoltata “con gli occhi spalancati”, proprio come un bambino! E che, proprio come i bambini, “per addormentarsi, ha bisogno degli occhi gentili. E di una lucina vicina al letto”.

Strani questi occhiali “doppi”: oltre ad adattare la distanza, ingentiliscono lo sguardo. Anche quello verso sé stessi.

Beatrice Alemagna, Che cos’è un bambino?, Topipittori, 2008

Articolo a cura di Giancarlo Chirico

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Cosa diventeremo? Quando una domanda tira l’altra….

Antje Damm, Cosa diventeremo?, Orecchio acerbo 2019

ovvero una domanda tira l’altra

La filosofia può essere considerata come una cartolina postale che è stata scritta con l’intenzione di arrivare a destinazione ma che in realtà non lo fa. La filosofia che raggiunge la destinazione e che si distrugge in quest’ultima cessa di essere filosofia vera. (J. Derrida)

 

Quando ho avuto tra le mani questo albo, singolare e poderoso, mi si sono illuminati gli occhi: non ci vuole mica un filosofo per concludere che un albo (letteralmente) pieno di domande – oltre sessanta – è come una miccia capace di innescare un vero e proprio incendio, sotto forma di lunghe discussioni e indagini articolate. Cominci a sfogliarlo e – boom! – le domande si aprono in altre domande, la curiosità alimenta gli sguardi e gli spunti spingono avanti la ricerca e, intrecciandosi e intersecandosi, mettono in discussione le nostre più solide convinzioni; istintivamente, cominci a stringere gli occhi a fessura, come se volessi scorgere meglio e più chiaramente, non solo intorno a te ma, soprattutto, dentro di te. E pagina dopo pagina le domande si fanno incalzanti e la tua posizione – prima così sicura, nel confortevole rifugio delle nostre abitudini – diventa sempre più scomoda: è il bello del fare filosofia, incamminarsi in un percorso di riflessione mettendo tra parentesi i pregiudizi e aprirsi autenticamente alla conoscenza.

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La prima cosa che ho pensato è che questo libro dovrebbe andare nelle scuole, tra i ragazzi: un albo del genere saprà scomodarli, provocarli, sconquassarli, sollevare polveroni e spalancare prospettive inconsuete, non riuscendo ad accontentarsi di slogan di facciata e di risposte di circostanza. Anche perché il rischio che corrono i nostri giovani, in questa società ultratecnologica, dove le risposte sembrano essere onnipresenti e pervasive, ma prive di un significativo apporto informativo, è la perdita di confidenza con la domanda e la necessità di mettersi in ricerca.

Qualche mese fa, a Palermo, durante un importante festival letterario, mi è capitato di incontrare nello stesso contesto due scuole primarie e una scuola secondaria di primo grado, un gruppo di circa 70 tra bambini e ragazzi: come in altri miei incontri fiabasofici, ho posto il tema a partire dalla lettura di un albo illustrato e ho invitato il gruppo a dire la propria; da subito, ho notato che, mentre i bambini mi incalzavano con osservazioni e domande, anche spiritose e divertenti, i ragazzi più grandicelli assistevano silenziosi, quasi passivi. Ho chiesto loro se avessero domande da fare, per aiutarci nella ricerca e mi hanno risposto che quando hanno una domanda, la girano a Mr. Google e ottengono subito la risposta di cui hanno bisogno! Ma non tutte le domande sono ‘pane’ per i denti di Mr. Google, tant’è che il nostro potente algoritmo si è dovuto arrendere dinanzi a domande cruciali: provate a chiedergli se Dio esiste e poi ditemi se la risposta vi ha soddisfatto….

Ho avuto la fortuna di conoscere Antje Damm a “Più libri più liberi”, in occasione dell’inaugurazione della bellissima mostra organizzata da Orecchio acerbo: ebbene, lei notava la stessa cosa, raccontandomi che i bambini rimangono sempre un po’ spaesati quando scoprono che il suo libro non contiene risposte e che neanche lei che ne è l’autrice le conosce davvero (“ho solo la mia opinione ma non vale di più di quella di ogni singolo lettore”).

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In quell’occasione ho chiesto ad Antje per quale motivo avesse incentrato un “libro fatto di domande” tutto intorno al tema della natura e del nostro rapporto con essa: mi ha risposto che è quello su cui ha riflettuto da sempre, sin da ragazzina. Il papà la accompagnava a fare lunghe passeggiate per i boschi, invitandola a riflettere sulla possibilità che esistesse l’amore tra gli alberi, la complessità della catena alimentare, l’amicizia tra le creature, l’ammirazione verso ciò che è più piccolo, …: e lei non ha fatto altro che tradurre in foto e immagini quelle impressioni poderose, riproponendo quasi le stesse domande e lo stesso desiderio di cercare una risposta.

Trovo molto bello che il filo conduttore del libro non siano domande qualsiasi, ma le domande di una ragazzina che – diventata donna, scrittrice, artista – a distanza di anni e nonostante le tante esperienze, continua a sollevarle: sempre loro, sempre le stesse, perché ci sono domande che non si esauriscono mai (alla faccia di Mr. Google). Mi ha ricordato l’esempio di Talete e dei primissimi filosofi – che verranno poi detti fisiologi o naturalisti – che sosteneva che il principio costitutivo del mondo fosse l’acqua, a partire dall’osservazione del moto delle onde o dal fatto che l’interno dei frutti, che conserva i semi, è umido: cominciamo a fare filosofia – o, più semplicemente, a sollevare domande – a partire da quel che ci circonda, perché abbiamo bisogno di dare un senso alla nostra esperienza quotidiana. Che, senza il pepe delle nostre domande, rischierebbe di scorrere via, senza lasciare segni!

Allora, portiamolo questo libro nelle scuole, lasciamolo in mano ai ragazzi e vediamo cosa hanno da raccontarci… e, dal momento che la nostra generazione prende in prestito proprio da loro, mettiamoci a nostra volta in gioco, condividendo il nostro punto di vista.

Vi racconto la mia esperienza. Ho diviso la classe in 4 gruppi, dando a ciascun gruppo l’elenco delle domande presenti nel libro, chiedendo loro di sceglierne una soltanto: leggevano, commentavano, ridevano, “sono domande assurde! ma come c’ha pensato!”, oppure “a questa una volta c’ho pensato anch’io, ti giuro!”. Una volta scelta la domanda, ho tirato fuori il libro e abbiamo curiosato tra le sue pagine, per scoprire in che modo l’autrice l’avesse interpretata: così è successo che una domanda apparentemente assurda (“I pomodori hanno paura di noi?”) abbia provocato un’interessantissima discussione sul modo in cui mangiamo e sulle scelte che facciamo, che non sono mai neutre e determinano sempre un cambiamento. A quel punto le domande si sono moltiplicate: “com’è possibile che un hamburger costi solo un euro? perché le etichette dei prodotti alimentari sono così difficili da leggere? perché è difficile cambiare le proprie abitudini alimentari?…”.

E di tanto in tanto, ritornavamo al libro, per amplificare i nostri spunti di riflessione e aggiungere altri elementi da valutare che, lungi dal complicare il nostro quadro di riferimento, ci hanno aiutato a capire quanto sia ricca e complessa la rete che ci tiene tutti uniti, collegati, dipendenti gli uni dagli altri: “abbiamo davvero bisogno della natura? a cosa dovremmo fare attenzione quando usiamo la natura? siamo autorizzati a mangiare gli animali? qual è il contrario di natura?”.

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È molto probabile che un percorso di questo tipo sia destinato a non approdare ad alcuna risposta definitiva e questo può lasciare interdetti i ragazzi che, all’inizio della discussione, magari ci speravano: ma è proprio qui che l’albo della Damm rivela la sua dimensione più autenticamente filosofica. Se, come dice il filosofo francese Bergson, “filosofare consiste nell’invertire la direzione abituale del lavoro del pensiero”, allora questo albo riesce davvero a farci fare filosofia, dal momento che nessuna delle sue pagine può lasciarci indifferenti, rappresentando piuttosto il momento buono per un importante cambio di rotta, prima mentale, poi pratico, prima individuale e poi collettivo.

Cosa diventeremo dipende da noi, ciascuno di noi… beh, questo forse si era capito!

Articolo a cura di Giancarlo Chirico