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Frida allo specchio!

Frida allo specchio!

di Giancarlo Chirico

È indubbio che lo specchio rappresenti uno degli oggetti (fiabeschi e non) più affascinanti e densi di significato. In primis, perché riflette quel che tu sei, restituisce ai tuoi occhi l’immagine che porti in giro per il mondo, senza alcun filtro o effetto speciale: lo specchio sa essere veritiero fino alla crudeltà. E così, cara strega, pur riconoscendo la tua bellezza, non può non declamare quella superiore di Biancaneve, lasciandoti lì a riflettere sulle ragioni che dovrebbero giustificare quella che a te pare una beffa cocente…

Ma lo specchio è anche un confine tra la dimensione fisica delle cose reali e quella impalpabile delle proiezioni immaginarie: come tutti i confini (o – pensando alle suggestioni filosofiche di Suzy Lee – come tutti i limiti), lo specchio esiste nella misura in cui può essere violato, attraversato, superato. lee_mirror-1Solo colui che osa guardare attraverso di esso può conoscere quel che veramente si nasconde dall’altra parte: e non è detto che tutto ciò sia meno reale… Alice, non potendo più calarsi per un albero cavo, esercita il proprio diritto di cittadinanza attraversando uno specchio e giungendo così per la seconda volta nello spazio abitato dalle più grandi meraviglie, dove la riflessione su se stessa può procedere senza inutili formalismi…

Infine, lo specchio è il luogo dei rovesciamenti, delle condizioni ribaltate, delle prospettive che si sovrappongono anche quando sono opposte: tu alzi il braccio destro ma lo specchio ti fa vedere quello sinistro, tu pensi che sia questo e, invece, si tratta di quello; un’opposizione che, in questo spazio, risulta sorprendentemente componibile.

3215268d-66ad-4d02-a7a3-393be316973f-620x453Chissà se avrà pensato a tutto questo Guillermo Kahlo Kaufmann allorquando, vedendo la figlia Frida completamente paralizzata su un letto, con le ossa frantumate in migliaia di dolorosi frammenti e lo sguardo spento dinanzi a una prospettiva di polvere e silenzio, decise di montarle (ma chi c’avrebbe mai pensato?) uno specchio sopra il suo letto…

Chissà se avrà pensato che, ponendola di fronte a quello specchio, la figlia sarebbe stata finalmente libera, non più preda della grigia disperazione ma capace di volteggiare con un nuovo paio di ali colorate.

Bellissima la doppia pagina che Michelangelo Rossato – nel suggestivo albo Frida Kahlo nella sua Casa Azul (Arka edizioni), con testi di Chiara Lossani – ha dedicato a questo “momento” potentissimo, durato quasi due anni: Frida Kahlo si guarda allo specchio. O meglio, non si guarda soltanto, ma si osserva, si scruta, si conosce e si riconosce in profondità.lo-specchio

E che si tratti di un momento cruciale nella vita di una ragazzina destinata a essere la più grande pittrice del secolo scorso, l’albo ce lo suggerisce allorché, per guardare l’illustrazione nel verso corretto, dobbiamo rovesciarlo e cambiare punto di vista: si tratta di una soluzione tecnica che ha autorevoli precedenti e che Michelangelo aveva già sperimentato in La Sirenetta. Ma qui i due soggetti che si fronteggiano sono la stessa persona: Frida e la sua immagine possono finalmente guardarsi reciprocamente; e noi – fuoricampo – assistiamo a un confronto intenso e autentico, senza facili scappatoie per nessuna delle due.

Sotto c’è Frida in carne e ossa, paralizzata, libera di muovere appena un braccio, con una tavolozza senza alcun colore, senza ispirazione, senza possibilità. Sopra c’è Frida in immagine e potenza, la Frida che vuole liberarsi da quella cruda prigionia e che vuole colorare il mondo intero: la Frida che vuole essere, con forza e audacia, che vuole librarsi e dare un senso alla totalità della propria sofferenza. Ma la doppia pagina illustrata da Rossato – e l’intensità dei due sguardi che s’incrociano – solleva almeno un interrogativo: siamo proprio sicuri che l’unico sguardo sia quello della Frida reale, grigia e sofferente, verso la sua immagine allo specchio, colorata e determinata? Non è forse possibile che quest’ultima Frida osservi a sua volta la prima e la scruti alla ricerca di un guizzo vitale che possa dare corpo alle possibilità ch’essa sente di rappresentare?

Perché, in questo prodigioso spazio di rovesciamenti, tutto è veramente possibile: anche che sia l’immagine nello specchio a riflettere, a sua volta, sul corpo che la proietta e la produce, rivelando nuove e inaudite forme di consapevolezza. A ben vedere, l’immagine allo specchio è allo stesso tempo ciò che siamo di qua dallo specchio e quel che possiamo diventare di là da esso, perché su questa soglia incerta e fragile abitano possibilità che vanno ancora scoperte ed esplorate. Frida deve averlo capito, tant’è che negli anni a seguire, per tutti i tormentati anni della sua straordinaria carriera, continuerà a dipingere prevalentemente autoritratti; e quando le chiesero le ragioni di questa sua scelta artistica, rispose semplicemente: “Dipingo me stessa perché passo molto tempo da sola e sono il soggetto che conosco meglio”.

È come se Frida, per tutta la sua vita, avesse continuato a sperimentare e a dare corpo alle infinite possibilità – alcune ricche di risvolti positivi, altre (purtroppo) cariche di dolori – che nei lunghi mesi dell’immobilità aveva imparato a scorgere nel riflesso dello specchio: ora indigena circondata da gatti, da scimmiette, da pappagalli, o da altri animali esotici, ora vestita completamente di bianco, ora cerbiatta in fuga, trafitta da decine di frecce e da un dolore indicibile.

E a noi, quante volte, ci capita di guardarci allo specchio? Decine e decine nella stessa giornata… ma lo facciamo solo per specchiarci in superficie o per guardarci in profondità, come seppe fare Frida? riusciamo a scorgervi il motore pulsante delle possibilità che siamo e che possiamo realizzare? A partire da queste domande, l’albo di Lossani e Rossato ci regala lo spunto per una divertentissima esperienza da vivere con i bambini: metteteli davanti a uno specchio e invitateli a osservarsi con attenzione, per cogliere le proprie caratteristiche da riprodurre poi in un ritratto…ebbene, ci regaleranno dei capolavori!

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“Havel e i suoi fantasmini” di Giancarlo Chirico

 «Ogni parola racchiude in sé la storia di coloro che la pronunciano […] Un uomo solo, anche se apparentemente impotente, che ha il coraggio di pronunciare ad alta voce una parola autentica e di sostenerla con tutta la sua persona e con tutta la sua vita, pronto a pagare per essa duramente, ha più potere di migliaia di anonimi».

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Trent’anni fa il 1989!

Gli anniversari a cifra tonda a volte riescono un po’ altisonanti ma, almeno in qualche caso, il clamore sembra più che giustificato: prendete il 1989, anno denso di eventi epocali, di cui proprio quest’anno ricorre il trentesimo anniversario. Eventi clamorosi che hanno cambiato radicalmente la nostra visione del mondo: l’ascesa politica di Solidarność in Polonia, il rovesciamento della dittatura di Ceausescu in Romania, la beffarda caduta del Muro più truce di ogni tempo e la rivoluzione meno sanguinaria della storia, la Rivoluzione di velluto, consumatasi nel giro di un mese tra Praga e Bratislava.

89-1989Chi c’era forse ricorderà che si trattò di eventi caotici, concitati, in molti casi confusionari: non è facile riportarli alla memoria, anche a distanza di trent’anni, e tenere insieme le fila di narrazioni così articolate e complesse. A quest’anno e al suo simbolo per antonomasia è dedicato il densissimo albo di Orecchio acerbo, intitolato proprio 1989 e dedicato a tutti i muri – visibili e invisibili – della storia: dieci voci in un unico albo, che provano ad attraversare i muri e andare oltre la loro fisica assurdità. L’albo, nella dialettica serrata dei testi tra loro e con le visionarie illustrazioni di Henning Wagenbreth, restituisce un quadro ricco, articolato e nient’affatto lineare di un anno che ha segnato la storia del nostro continente.

I Fantasmini di Havel

L’albo di cui vogliamo parlarvi, invece, è ancora inedito in Italia ed è legato alla Cecoslovacchia, un paese geograficamente nel cuore dell’Europa ma che, a causa di quell’assurda linea politica rappresentata proprio dal Muro di Berlino, venne a trovarsi dall’altra parte. Nasce nell’ambito di un’operazione editoriale coraggiosa e romantica e lo ha recuperato per noi una casa editrice praghese – Meander – che, nel 2003 ha ripubblicato una tiratura celebrativa e limitatissima (appena 300 copie). Il titolo in ceco è Piž D’uchové, espressione che abbiamo provato a tradurre con Fantasmini; le illustrazioni sono di Jiří Sopko, uno dei più interessanti artisti cechi contemporanei, che riesce a dar corpo a tutta la goffaggine di questi sinistri personaggi.k-pd-02

L’autore è una firma del tutto inedita per la letteratura per l’infanzia: si tratta nientemeno che di Václav Havel, letterato sopraffine, uomo di eccezionale levatura, statista di grande spessore, primo Presidente liberamente eletto della Repubblica Cecoslovacca. Prima di questo libro Havel non aveva mai scritto – e dopo questo libro, mai più scriverà – per bambini, tant’è che lui stesso, nella dedica, confessa il proprio disagio: “Cari bambini, non sono solito scrivere per voi, e per questo non so se questo racconto sui Piž D’uchové possa avere senso per voi e se possa piacervi. Se così non fosse, non buttatelo via – aspettate e vedete come sarà quando sarete più vecchi. Vostro Vaclav Havel”.

Il libro – con la sua copertina rossa che a stento prova a contenere un inquietante faccione verde – mi è capitato tra le mani mentre mi aggiravo tra i negozi dell’aeroporto praghese, bloccato da un provvidenziale ritardo: che ci faceva il nome di Havel su quello che era evidentemente un albo illustrato? Per mia fortuna, scopro che l’edizione è in doppia lingua, ceco e inglese: comincio a leggere le prime righe… e, da allora, non l’ho più mollato!

Scopro così che Havel ci mette mano nel 1975 quando, tramite il connazionale Ivan Klima, gli giunge una proposta sicuramente interessante, ma anche tanto pericolosa: una casa editrice tedesca aveva deciso di dare voce a dodici dissidenti cecoslovacchi, chiedendo loro di scrivere fiabe e novelle per bambini e di recuperare la ricca tradizione favolistica nazionale. In quanto dissidenti, a questi autori non era permesso pubblicare in patria: alcuni lo facevano clandestinamente, realizzando (anche a mano) fogli o periodici dove riproducevano testi letterari messi all’indice; altri, come Havel, cercavano in qualche modo di far giungere i loro manoscritti oltre la “cortina di ferro”.

Havel e i bambini

Havel resterà sempre un po’ scettico rispetto a questa operazione editoriale, forse perché un po’ estraneo al mondo delle fiabe: eppure, da gran scrittore qual è, realizza – nel suo inconfondibile stile – una serie di cinque racconti visionari e potenti, degni delle fiabe più autentiche. I protagonisti sono i Piž D’uchové, creature di indole pavida e dalla parlata melliflua, bramosi di potere e votati alla finta cordialità, che si aggirano per il mondo con superficialità, guardando tutti di sbieco e con lo sguardo sospettoso.

I primi due racconti si basano sul tradizionale schema della commedia degli equivoci,  esaurendosi in una litania al limite dell’assurdo, che si contorce a spirale e dove la forma nasconde malamente la totale assenza di sostanza. Gli altri racconti – come delle vere e proprie scene teatrali – affrontano temi di estrema attualità, come il rispetto per l’ambiente a partire dai piccoli gesti, i cortocircuiti relazionali e i perversi rapporti con gli apparecchi telefonici: in certi passaggi si ha la sensazione che siano stati scritti da un autore contemporaneo.

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I Piž D’uchové dimostrano chiaramente che il potere, quando è autoreferenziale, diventa prigioniero delle sue stesse menzogne e, nella speranza di conservarsi, falsifica ogni altra cosa. La sua rete si regge sugli inganni, le spiate, le origliate: sembra forte e onnipresente ma siamo noi ad alimentarla. Per troppa paura, accettiamo il ruolo di delatori o marionette, preferendo vivere nella menzogna, convinti che si tratti pur sempre di una qualche forma di vita. Al contrario Havel è sicuro che i bambini – nemici di ogni mistificazione – non cascheranno mai nel tranello dei Piž D’uchové e si rivolge continuamente a loro (fa domande, chiede cosa ne pensino, li chiama a una reazione), non dubitando neanche per un minuto che loro – meglio di noi adulti – sapranno scegliere la cosa giusta: vivere la verità, senza menzogne né compromessi.

L’epilogo della vicenda storica

Il 17 novembre 1989, quando a Praga e a Bratislava si tennero le prime manifestazioni studentesche, Václav Havel si trovava in prigione: era stato arrestato il 28 ottobre e non era la prima volta. Negli anni precedenti, infatti, aveva costantemente manifestato il proprio dissenso verso il regime, accettando di non rappresentare le proprie opere, vivendo ai margini della società, costantemente sorvegliato, e rinunciando addirittura a una proposta di grazia. La caduta del Muro, appena qualche giorno prima, aveva come ridestato le coscienze assopite e spaventate, rappresentando per tutti il segno evidente che la Storia fosse destinata a cambiare. Il 21 novembre – quattro giorni dopo le prime manifestazioni, 12 giorni dalla caduta del Muro – nonostante le false informazioni e i tentativi di depistaggio, i manifestanti erano passati da 15 mila a quasi mezzo milione di persone. Le cronache raccontano di fasi politiche estremamente concitate, di colloqui tesissimi tra regime e oppositori, di manifestazioni affollate e convulse, di un’intera nazione paralizzata tra scioperi e cortei. La transizione, però, per quanto rapidissima, si realizzò senza alcuna violenza: il 29 dicembre 1989 Václav Havel fu nominato Presidente della Repubblica cecoslovacca.

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Mappe delle mie emozioni – Un silenzio che parla di noi

L’opera che perdura è sempre capace di un’infinita e plastica ambiguità; è tutto per tutti; è uno specchio che svela tratti del lettore ed è insieme una mappa del mondo. (Jorge Luis Borges)

Questo albo – formalmente “silenzioso” perché senza parole – si rivela sorprendente già nel titolo, che combina e mette insieme due elementi a dir poco intriganti dal punto di vista filosofico: mappe ed emozioni.

Le mappe, da sempre, esercitano sugli uomini un grande fascino, forse perché – nella loro materialità – restituiscono la sensazione di poter controllare un territorio, di poterlo contenere in un singolo manufatto, consultabile (e comprensibile) ogni volta che se ne ha bisogno. Ogni territorio, anche se conosciuto, può presentare comunque incognite e pericoli, perché non si lascia mai esplorare del tutto e tende a sottrarsi all’individuazione di rassicuranti punti di riferimento: la mappa, invece, ci permette di penetrarne i segreti e ci aiuta a muoverci con maggiore consapevolezza.

Ma – come insegna il filosofo polacco Alfred Korzybskila mappa non è mai il territorio, dal momento che sconta, inevitabilmente, un difetto di approssimazione, figlio della pretesa – forse assurda, sicuramente ridicola – di voler contenere un enorme volume tridimensionale in un contenutissimo spazio bidimensionale. A questo si aggiunga che la mappa rappresenta anche un’interpretazione del territorio, perché è condizionata dagli obiettivi, dalle credenze e dalle scelte di riferimento di colui che l’ha tracciata: nelle mappe babilonesi del VI secolo a.C. al centro del mondo c’è Babilonia, in quelle latine è Roma, mentre in quelle medievali troviamo Gerusalemme. E dal momento che, chi si muove in un territorio, lo fa avvalendosi di una mappa e dell’interpretazione che essa dà di quel territorio, ogni mappa finisce per rappresentarne un’idea diversa: tante mappe, tanti territori.

L’altro grande tema, dicevamo, sono le emozioni, sulle quali tanto – forse troppo – è stato già detto e scritto, anche nella letteratura per ragazzi. E subito si accalcano le domande: volerne parlare ancora non rappresenta forse un rischio dal punto di vista narrativo? quale altra prospettiva resta da esplorare? insomma, cosa resta ancora da dire?

Ma è proprio dalla combinazione operata dal titolo, nuova e nient’affatto scontata, tra “mappe” ed “emozioni” che scaturisce la cifra filosofica di questo bellissimo albo di Bimba Landmann, illustratrice e – qui come altre volte – anche autrice, che non ha certo bisogno di presentazioni: non è interessante quel che resta da dire (e, infatti, l’albo è “silenzioso” da questo punto di vista) ma quel che resta da esplorare. Dieci mondi, straordinari, visionari, profondi.

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La storia dell’albo è il resoconto di un viaggio che si snoda lungo questi dieci mondi, che prendono il nome da altrettante emozioni, evocati in dieci mappe: ma è molto più di questo, perché – parallelamente al racconto del viaggio, intenso e toccante – le singole mappe, coloratissime e accurate, raccontano un’altra storia, ciascuna relativa all’emozione da cui il territorio prende il nome, ciascuna incentrata su una specifica caratteristica che, prima di essere geografica (relativa al territorio che la mappa rappresenta), è emozionale.

Le emozioni di cui ci parla il titolo, infatti, pervadono tutto il territorio cui danno il nome, quasi lo modellano, lo pervadono, lo identificano in maniera inconfondibile. E le mappe – lasciandosi esplorare in ogni luogo con un dito, aggirando dirupi, costeggiando fiumi, attraversando terre sconfinate, impervie, lussureggianti o desertiche – ci permettono di familiarizzare con la territorialità di quell’emozione, di cui sono non soltanto la rappresentazione grafica, ma una traccia concreta e persistente.

Forse la mappa non è il territorio ma, le splendide tavole illustrate da Bimba sono capaci di restituire loro una tridimensionalità che altrimenti non potrebbero avere, in un effetto di rara potenza estetica. Lungi dall’essere rappresentazioni piatte, ciascuna di esse ricalca in forma, struttura e colore, la dinamicità, la ricchezza e l’incredibile varietà dell’emozione che si fa territorio: e mentre il viaggio prosegue attraverso nuove mappe e nuove emozioni, da pagina a pagina riecheggiano paesaggi e colori del grande Zavrel, il maestro “per sempre” cui Bimba dedica l’albo, e si fa più chiara in noi la consapevolezza che non si tratta affatto di territori ideali, chimerici e lontanissimi, ma di geografie concrete e reali, perché concrete e reali sono le emozioni che le abitano e le attraversano.

Queste mappe, uniche e prodigiose, non confondono l’emozione con il territorio ma sembrano rappresentarne la possibilità di una sovrapposizione: in questo modo noi lettori-esploratori, imparando a esplorare la mappa, scopriamo la dimensione emozionale che ogni territorio ha, sintonizzandoci con la cifra emotiva che sempre ci lega a luoghi e a geografie, dove incontriamo gente, facciamo esperienze, gustiamo il sapore della vita.

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A ben vedere il libro di Bimba ci restituisce una consapevolezza nuova e sorprendente: anche la mappa è un luogo, diverso da quello che viene rappresentato. Non è soltanto uno strumento per conoscere e comprendere il territorio, ma uno spazio autonomo, un mondo intermedio che ci permette di imparare ad abitare – e non semplicemente di occupare – con una nuova consapevolezza.

E dal momento che il territorio incarna un’emozione, per ciascuno di noi diventa indispensabile imparare ad abitare le mappe delle proprie emozioni.

Bimba Landmann, Mappe delle mie emozioni, Camelozampa, Monselice

Giancarlo Chirico

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Il fiore del signor Moggi di Bernard Friot e Nicoletta Bertelle

“Nulla vieta di credere che i discorsi che ora facciamo siano tenuti in sogno; e quando in sogno crediamo di raccontare un sogno, la somiglianza delle sensazioni nel sonno e nella veglia è addirittura meravigliosa” (Platone, Teeteto, 158 c)

 

Di che sostanza sono fatti i sogni?

È possibile disegnarne uno, appropriarsi della sua effimera bellezza, dargli corpo e colore, in modo che anche gli altri lo vedano e possano condividere con noi lo stupore e l’emozione che c’ha dato?

A ben vedere, per il signor Moggi – che si è appena svegliato da un bellissimo sogno – la questione non ha molto peso: lui sente, fortissimo, il bisogno di disegnare lo straordinario fiore che ha sognato; e subito si mette a cercare la forma ideale, la combinazione cromatica più idonea a restituirgli sul foglio la stessa intensità del sogno. Ma perché lo fa?

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Quante volte ci siamo svegliati, dopo un bellissimo sogno, con una sensazione vertiginosa e stupenda, cui abbiamo provato a dare forma attraverso le nostre parole, senza riuscirci? E a quel punto, davanti all’espressione un po’ perplessa e distaccata del nostro interlocutore, abbiamo dovuto amaramente concludere che no, quello non era la realtà, era soltanto un sogno: rassegnati, ci siamo lasciati trascinare dalla quotidianità della nostra routine. Beh, il signor Moggi – al contrario di noi – non si lascia affatto afferrare da questo grigio sconforto e, anzi, si mette subito a dipingere: per lui il fiore non è tanto il riflesso di un sogno destinato a svanire con le prime luci del giorno, ma una presenza reale, per quanto lontana. Ed è convinto che per coprire quella distanza, per evocare quella presenza, ci sia solo bisogno di cura, ricerca, impegno.

il-fiore-del-signor-moggi-03Davanti al bellissimo fiore che compare nella primissima doppia pagina dell’albo mi sono chiesto quanto sia stato arduo il compito di Nicoletta Bertelle, l’illustratrice del magnifico testo di Bernard Friot: mi sono immaginato i fogli che ha riempito con i suoi colori, le numerose prove e gli svariati tentativi di dar corpo all’inafferrabile; ho provato a sentire il pennello che fremeva sotto la mano, facendosi più leggiadro possibile, mentre nel cuore richiamava la voce del maestro di una vita, quello Štěpán Zavřel, che con il colore ha incantato gli sguardi di mezza Europa. Com’è stato possibile venire a capo di una prova artistica tanto notevole?

Con queste domande che mi ronzavano per la testa, mi sono messo sulle tracce del signor Moggi: ho visto il colore del suo dipinto ingrigirsi sotto i miei occhi e mi sono ricordato delle tante volte in cui mi sono mancate le parole per raccontare i miei sogni. Mi sono riconosciuto nel suo sconforto, per la goffaggine di quei tentativi volti a prestare ascolto ai suggerimenti di amici e parenti o all’esempio degli artisti più bravi. E mi sono incamminato assieme a lui – ancora in pigiama e con un occhio mezzo aperto sui sogni – per i sentieri di uno sconfinato giardino; e, affranto e sconsolato, mi sono lasciato sprofondare anch’io su quella panchina.

E lì abbiamo scoperto di non essere soli – il signor Moggi e io – perché seduta accanto a noi c’era una bambina (ma da dove sarà sbucata fuori?), che dice di essere in grado di disegnare il fiore, che lo conosce, che si tratta di un fiore del suo lontano paese. E mentre li ho visti volar via – il signor Moggi e la bambina – a cavallo di una farfalla di un viola sfavillante, ho realizzato di sognare il loro stesso sogno e di precipitare al centro di una nuova consapevolezza.

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Fino a oggi ero convinto che nessuno potesse mai entrare nei sogni di un altro: e come potrebbe mai fare? Ogni volta che ho provato a descrivere la potente verticalità di un’esperienza onirica, le parole sembravano sfilacciarsi e le descrizioni suonavano finte ed edulcorate, sicuramente non all’altezza di quella leggiadra potenza che mi trascinava via.

E, invece, è possibile: forse non ci riusciamo noi adulti, no, ma ci riescono i bambini! Loro sanno di che sostanza sono fatti i sogni! E, infatti, la bambina – lei sola – riesce finalmente a dare corpo al fiore del signor Moggi, quello stesso fiore che noi possiamo ammirare grazie al tratto, leggiadro e profondo, della Bertelle. Ed è un fiore dalle caratteristiche straordinarie, dal momento che tutti gli altri interlocutori, ammirandolo, ci vedono il fiore che avevano immaginato, per quanto fosse profondamente diverso da ogni altro.

Solo quello della bambina è identico a quello del sogno – anzi no, è proprio lo stesso fiore – perché lo sguardo di un bambino è capace di ogni prodigio, purché sia lasciato libero di spaziare, oltre ogni muro e confine. E qui il pensiero torna ancora a lui, a Zavrel (cui l’albo, non a caso, è dedicato) e alla sua incondizionata fiducia nei bambini e nella loro capacità di vedere autenticamente: e mi sembra un bel modo – questo – per ricordarlo, con le intense illustrazioni di una delle sue allieve, che ammantano di magia la sognante poesia-in-prosa di un altro indiscusso maestro, qual è Bernard Friot.

Giancarlo Chirico

 

Bernard Friot, Nicoletta Bertelle, Il fiore del signor Moggi, Fatatrac, Casalecchio di Reno (BO) 2019

 

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La Rassegna delle Letterature Inclusive vince il Maggio dei Libri 2019

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Anche se la Rassegna si è conclusa da alcuni mesi, abbiamo tre bellissime novità di cui vogliamo parlarvi. Andiamo con ordine.

La prima. Lo scorso 28 settembre la Rassegna delle letterature inclusive ha partecipato alla VI edizione di Educare alle Differenze che quest’anno si svolgeva a Pisa: Educare alle differenze è un’iniziativa nata dal basso, per sostenere la scuola pubblica e laica, artigiana di emancipazione e solidarietà, e per promuovere un’educazione che si fondi sulla differenza come valore e risorsa, non come problema o minaccia.

Il nostro poster faceva bella mostra di sé, accanto a tanti altri che raccontavano di sfide affascinanti e di iniziative straordinarie, radicate in ogni parte d’Italia. È stata una bellissima occasione per confrontarci con realtà assai diverse tra loro, conoscere tanta bella gente e stabilire nuovi legami, progettando insieme altre idee per il futuro. Per chi volesse dare una sbirciatina al nostro poster e ai suoi contenuti ora lo può trovare in libreria, proprio sulla porta d’ingresso, mentre annuncia la seconda grandissima novità!

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La nostra Rassegna è stata, infatti, giudicata la migliore iniziativa della sez. Librerie nell’ambito de Il maggio dei libri, la fantastica campagna nazionale di promozione alla lettura, organizzata dal Centro per il Libro e la Lettura, con il patrocinio della Commissione Nazionale Italiana per l’UNESCO. Leggete qua!

https://www.cepell.it/it/progetti/progetti-nazionali/335-i-vincitori-del-premio-maggio-dei-libri-2019-la-cerimonia-di-premiazione-il-4-dicembre-a-pi%C3%B9-libri-pi%C3%B9-liberi.html?fbclid=IwAR2ryFF-9fzGn-PM2mGwbEKPR6rd-zIbIUri3Et5Dx08mxDYsgvOBLqIgPY

 

Ricevere questo riconoscimento è per noi un grandissimo onore che vogliamo condividere con i diversi formatori che hanno accettato il nostro invito e ci hanno accompagnato lungo il nostro fittissimo calendario e le tante persone che hanno partecipato ai vari appuntamenti. Un grazie particolare va a Maura Picinich che ci ha sostenuto sin dall’inizio, permettendoci di dedicare la Rassegna alla memoria di Livio Sossi che era venuto a mancare proprio nei giorni in cui stavamo organizzando l’iniziativa; nonché alle Biblioteche di Roma e all’Amministrazione del X Municipio di Roma Capitale che hanno patrocinato la Rassegna.

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La premiazione avverrà alla Nuvola il 4 dicembre: noi già non vediamo l’ora!! E visto che un traguardo così importante va senz’altro festeggiato, abbiamo in programma un evento molto particolare in libreria, cui sarete tutti invitati!

E la terza novità? Giusto, ce ne stavamo quasi scordando…

Beh, la terza novità è che al prossimo mese di maggio mancano ancora 6 mesi, ma noi stiamo già lavorando alla prossima edizione… Come si dice in questi casi, stay tuned!

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