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Mariapaola Pesce ci racconta i suoi libri in tema di Shoah

Mercoledì 27 gennaio alle 18:30 abbiamo incontrato durante uno dei nostri appuntamenti online una grande autrice, nonché amica di Sognalibri, Mariapaola Pesce. Con lei abbiamo voluto parlare di quei libri in tema Shoah che presentassero anche messaggi di speranza e fiducia nel prossimo. Un modo per vincere le reticenze di insegnanti e genitori, indecisi se affrontare o meno questa dolorosa tematica con i bambini. Dall’incontro sono emersi tantissimi titoli. Mariapaola ha voluto generosamente condividere con noi una parte della sua ricchissima bibliografia, che qui riportiamo:

Un viaggio verso un mondo perfetto, Daniela Palumbo, Piemme

Un chilo di piume, un chilo di piombo, Donatella Ziliotto,Lapis

Il fantasma del villino, Beatrice Solinas Donghi, Einaudi( proposto da Giancarlo)

L’eroe invisibile, Luca Cognolato/Silvia Del Francia, Einaudi Ragazzi

Suonando sul filo, Cristiana Pezzetta, Ed. Paoline

Corri, ragazzo corri!, Uri Orlev, Salani

Fino a quando la mia stella brillerà, Liliana Segre/Daniela Palumbo, Pickwick

La valigia di Hana, Karen Levine, Fabbri( non citato, ma presente alle mie spalle)

La casa sul lago, Thomas HArding, Orecchio Acerbo

Fuori dal campo, Serenella Quarello, Rapsodia 

Link al documentario Figli del destino:

https://www.raiplay.it/video/2019/01/Figli-del-destino-9fbe0e1f-dfb1-4a7d-b0c4-fa055455ad35.html

 L’albero di Anne, Irène Cohen-Janca /Maurizio Quarello Orecchio Acerbo

La stella che non brilla, Guia Risari, Gribaudo   

 Il cavaliere delle stelle, Luca Cognolato/Silvia Del Francia, Lapis…       

La porta di Anne, Guia Risari, Mondadori     

Un sacchetto di biglie, Joseph Joffo, Rizzoli

Il gelataio Tirelli, Tamar Meir, Gallucci

L’ultimo viaggio, Irene Cohen-Janca, Maurizio A.C. Quarello,Orecchio Acerbo

Bruno, il bambino che imparò a volare, Nadia Terranova e Ofra Amit, Orecchio Acerbo

Fuorigioco, Fabrizio Silei e Maurizio A.C. Quarello, Orecchio Acerbo

L’albero della memoria, Anna e Michele Sarfatti, Mondadori

Vogliamo ricordare, storie e parole per raccontare ai ragazzi gli orrori della Seconda Guerra Mondiale, Teresa Buongiorno Eliana Canova e Lia Levi, Battello a vapore

Il giorno della memoria raccontato ai miei nipoti, Lia Levi, Piemme

Anne Frank – Diario, Ari Folma David polonsky, Super Et

Ridere come uomini, di Fabrizio Altieri, Il Battello a vapore

Prof, che cos’è la Shoah? Frediano Sessi, Einaudi Ragazzi

La diretta sulla pagina FB
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Non ora Bernardo, ovvero ascoltiamo i piccoli

“Non ora, Bernardo” è uno di quegli albi illustrati dalla forza indiscussa che, se si ha la fortuna di incrociare, è proprio il caso di non farsi sfuggire l’occasione di sfogliarlo, di osservarlo, di leggerlo e di rileggerlo. Statene certi, niente sarà più come prima… ma a una condizione, un’unica condizione: quella di avvicinarlo disarmati, senza giudizi e pregiudizi, liberi e pronti ad ascoltare…
L’autore in questione è David Mckee (classe 1935), scrittore e illustratore britannico, già conosciuto da un vasto pubblico per “Elmer, l’elefante variopinto” o i “Tre mostri”, oltre ad una produzione che conta più di trenta libri al suo attivo. In Italia fu pubblicato per la prima volta nel 1980 da Emme edizioni con il titolo “Non rompere Giovanni”; successivamente, nel 1998, da edizioni El con il titolo “Bernardo e il mostro”; nel 2019 dalla Mondadori con “Non ora Bernardo”.


Il potere di questa storia nasce dall’azione concomitante di Parola e Illustrazione in un sodalizio perfetto capace di veicolare un messaggio forte e chiaro su una tematica importante, quanto delicata, quale il bisogno del bambino di essere ascoltato da parte del genitore, e io aggiungerei, dell’adulto.
La storia racconta uno spaccato familiare in cui padre e madre sono in casa e, talmente occupati nelle loro faccende quotidiane, da non prestare attenzione a ciò che dice Bernardo, il loro bambino, trascurandone persino le “estreme” conseguenze . Bernardo, infatti, dopo aver chiesto aiuto alla mamma e al papà perché in giardino c’è un mostro e dopo essersi sentito continuamente rispondere “non ora Bernardo”, cercherà, da solo, di affrontarlo finendo per essere mangiato.
Da qui il paradosso , il mostro stesso entrerà in casa e i genitori di Bernardo non lo riconosceranno, crederanno sia ancora il loro bambino senza prestargli nemmeno uno sguardo e il mostro incredibilmente sarà addirittura spodestato dal suo essere mostro.


Quanto male fa l’indifferenza? Negare l’ascolto a un “piccolo” produce solitudine e la solitudine ti fa essere, sempre, in balia di altro o, addirittura diventare altro da te.
La maestria di Mckee sta proprio in questo: attraverso una semplice storia, ci presenta “naturalmente” una realtà fino alle sue massime conseguenze come un monito, provocatorio ed ironico… nessun puntare il dito, nessuna retorica, niente moralismi solo tanta attenzione alla Vita che ha bisogno di cure ed interesse per crescere vigorosa e feconda.
Questa storia è un invito a pensare sempre con gli occhi aperti a ciò che ci circonda, ci richiama alla responsabilità del nostro essere adulti e ci interpella senza mezze misure, arrivando diritta al cuore e alla coscienza. Può rappresentare, se vogliamo, un’occasione importante di crescita affettiva, uno strumento originale di consapevolezza e cambiamento personale e relazionale, e, come una cartina tornasole, mostrarci dove siamo, quale direzione abbiamo, e come possiamo rendere belle e sane le nostre relazioni in famiglia e fuori.


Buona lettura!

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Il venditore di felicità, ovvero metti un pomeriggio con tre bambine…

Sulla natura stessa della felicità non si riesce a trovare un accordo,

e le spiegazioni dei saggi e del popolo sono inconciliabili.

Aristotele

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Ci sono libri che non hanno veramente bisogno di presentazione e sicuramente Il venditore di felicità (Kite) rientra a pieno titolo tra questi: non solo perché la storia è la combinazione dell’energia e della creatività di due grandi artisti – i testi geniali di Davide Calì e le illuminanti illustrazioni di Marco Somà – ma proprio per il tema che ci invita, fin dal titolo, a riflettere su un paradosso che, se fosse vero, risolverebbe secoli di discussioni filosofiche. Di che cosa è fatta la felicità? come fai a metterla in un barattolo? E ammesso che si possa farlo, puoi venderla e comprarla? e da chi la compreresti?

Ho sempre pensato che sarebbe stato entusiasmante parlarne con i bambini perché, nella loro sconfinata saggezza, avrebbero potuto offrirmi chiavi di lettura nuove e accattivanti. E quando recentemente ho avviato questa insolita formula degli appuntamenti filosofici a distanza, d’istinto ho sentito con certezza che fosse arrivato il momento di farlo!

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Ecco perché, per una volta, mi taccio e lascio la parola direttamente a loro: tre bambine che in un caldo pomeriggio di maggio si son ritrovate in una stanza virtuale a indagare la questione millenaria della natura della felicità.

G. Il piccione della storia vende la felicità: ma come fai a trovare la felicità e a metterla in un barattolo?

MS. Quando uno è felice, allora puoi provare a imprigionare la felicità in un barattolo

G. Si, ma da dove esce la felicità?

V. Dalla bocca che sorride.

MS. Dal cuore.

A. Dagli occhi. E anche dal movimento… io sono felice quando vado in bicicletta!

G. E come ci accorgiamo che una persona è felice?

MS. Lo guardo con gli occhi: se sto lì con lui, mi accorgo che è felice, perché lo sento ridere, lo vedo felice.

G. Bella questa cosa che per accorgermi della felicità di una persona, devo stare attento, devo accorgermene. Ma una persona può essere felice da sola?

A. Si, quando sto con il mio pupazzo o con i miei cagnolini.

V. Ma non è meglio se lo dici a chi vuoi bene?

G. Cioè, condividere la felicità con chi vuoi bene?

V. Si, così è doppia, perché anche l’altra persona è felice assieme a te.

G. Prima A. diceva che è felice quando va in bicicletta… quand’è che siamo felici?

MS. Quando farò il pigiama party con la mia amica!

G. Cioè, non lo hai ancora fatto? Lo devi ancora fare?

MS. Si, devo ancora farlo, ma sono sicura che quando lo farò sarò felicissima!

G. E come fai a saperlo?

MS. Con l’immaginazione! Immagino di essere felice e nel cuore so che è così!

G. Bello: posso essere felice di una cosa che ancora non è accaduta! E – ritornando alla storia – si può vendere la felicità?

V. No, puoi solo condividerla con un amico o una persona che ti vuole bene.

MS. Come fai a venderla? Non si vede la felicità!

G. Come non si vede? Abbiamo detto che noi ci accorgiamo se una persona è felice, la vediamo e la sentiamo!

MS. Si, quando una persona è felice, tu la vedi, ma la felicità che esce tu non la vedi mica.

G. Quindi, ce ne accorgiamo, la possiamo condividere, la possiamo immaginare ma non possiamo inscatolarla! Però, sappiamo dove trovarla?

A. Si, nel cuore delle persone, è lì che si trovano le emozioni.

G. E come faccio a distinguere la felicità dalle altre emozioni?

A. Quando sei felice puoi fare un disegno, così poi te lo ricordi. E puoi farlo vedere ad altre persone!

V. Puoi mettere in ordine il tuo cuore! Potresti costruire tante piccole porticine e in ognuna ci metti dentro l’amore per una persona, per il tuo cagnolino o il tuo gattino, e tutte le altre cose che ti rendono felice.

G. Insomma come una grande dispensa?

V. Tante stanzette, come un alveare.

A.  Perché se no, ti confondi.

V. Possiamo disegnare un cuore sulle porticine e dentro ci scriviamo il nome delle persone e tutte le cose…

G. Una bella immagine. Invece, la storia ci invita a immaginare tanti barattoli, ognuno con la propria etichetta… Ma, a proposito, cosa c’era nel barattolo della storia?

A.  È vuoto, il signor Topo ci semina qualcosa e ci fa crescere una pianta.

G. Come se la felicità potesse crescere…

V. Si, la felicità aumenta sempre, perché con il tempo facciamo sempre più cose belle!

G. È vero, ma ci capitano anche cose tristi…

V. E allora vuol dire che dobbiamo fare più cose belle, più cose che ci rendono felici!

E allora facciamoci capitare tante cose belle!! Non è necessario inseguirle con fatica e sudore, no, basta avere occhi per saperle cogliere e trovarle anche in un barattolo vuoto, che ci capita tra le mani proprio nel momento in cui ne avevamo bisogno.

Non esiste una strada verso la felicità.
La felicità è la strada

(Confucio)

 

Articolo di Giancarlo Chirico

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La cosa più importante, ovvero il ti esti socratico

Articolo di Giancarlo Chirico

Quando con le sognalibraie abbiamo pensato alla possibilità di tenere incontri fiabasofici a distanza le perplessità erano tante: è possibile fare filosofia guardandosi da una finestrella? Cosa sarebbe successo tenendo tutti i microfoni aperti? Quanto avrebbe pesato l’assenza fisica e la distanza, questo stare insieme in uno spazio virtuale da inventare ogni volta daccapo?

Però, era troppa la nostra voglia di ritornare ai bambini, di pensare insieme a loro il futuro prossimo, di costruire insieme a loro la filosofia per una nuova primavera, a partire dal nostro qui-e-ora. E i bambini, come sempre, sono stati fantastici!

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Il primo appuntamento de La Maggio-sofia è stato dedicato a un albo che non ha certamente bisogno di presentazioni, ovvero La cosa più importante di Margaret Wise Brown, con le illustrazioni di Leonard Weisgrad, che, a distanza di quasi sette decenni, Orecchio acerbo ha finalmente regalato al pubblico italiano. Un albo profondo, attento, generoso, capace di offrire un punto di vista sempre nuovo sulle cose, anche su oggetti comuni che – apparentemente – non sembrano avere nulla di nuovo da rivelarci: un cucchiaio, una mela, la neve…

L’operazione che ci suggeriscono gli autori è degna dell’autentica maieutica socratica, dal momento che ci invita a scoprire la radice essenziale di una cosa, a isolare dalle sue tante qualità quella più importante, quella che la definisce davvero e che racchiude il suo modo di essere nel mondo: tutte le altre caratteristiche possono esserci o no, sicuramente rendono più ricca la nostra esperienza, ci aiutano a conoscere altri aspetti della cosa ma non ci rivelano nulla della sua essenza, ovvero di quell’unica caratteristica per la quale una rosa è una rosa, una mela è una mela, la neve è la neve. Ecco come da un albo illustrato può prendere le mosse un percorso verso l’essenza, quello stesso che Socrate usava condurre con i suoi interlocutori per le strade e le piazze di Atene.

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Durante il nostro incontro “a distanza”, dopo aver letto ed esplorato l’albo in lungo e in largo, ho proposto ai bambini di aggiungervi altre pagine, le nostre pagine, indagando le caratteristiche di altre parole: domenica, mare, scuola, carezza, bacio, mamma, finestra, penna… Ne abbiamo scelto due e, per ciascuna, abbiamo ragionato sulle loro caratteristiche, provando a isolare quella più importante: e dal momento che, l’albo illustrato si compone di due codici espressivi diversi, abbiamo lavorato anche sulle illustrazioni. La terza parola, poi, l’hanno scelta loro, decidendo di descrivere il buio: e in questo gioco autenticamente filosofico la cosa più importante è che non si sono mai tirati indietro, mettendo al centro di tutto la loro genuinità, la più radicale forma di saggezza.

Lascio la parola a loro, ai bambini e, in particolare, alle illustrazioni di Vittoria e Marta (che ringrazio per averle subito condivise con me).

 

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Domenica

La cosa importante della domenica è che è festa.

Di domenica posso giocare con papà o andare al mare.

A pranzo vado a mangiare dalla nonna.

Posso dormire un po’ di più e restare a casa.

O scendere in piazza a giocare con la bici.

Ma la cosa più importante della domenica è che è festa!

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Bacio

La cosa importante del bacio è che diffondi amore: fai vedere alle persone cui vuoi bene che gli vuoi più bene di quanto pensavano.

Qualche volta è caldo e morbido, qualche altra volta è freddo e sbavoso.

Fa sempre smack.

Ti senti più forte e amato quando lo ricevi e ti senti felicissimo quando te lo dà la mamma.

Quando una persona ti piace e ti dà un bacino, ti senti svenire…

Ma la cosa più importante è che diffondi amore: fai vedere alle persone cui vuoi bene che gli vuoi più bene di quanto pensavano.

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Buio

La cosa importante del buio è che fa paura.

È di colore nero e non vedi niente.

Ci possono essere le ombre e puoi fare brutti sogni.

Per cacciarli devi farti coraggio e accendere la luce.

Se hai una torcia puoi giocare con le ombre e spaventare per gioco mamma e papà.

E se è la notte di Natale viene Babbo Natale.

Ma la cosa più importante del buio è che fa paura.

 

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L’invenzione dell’abbraccio, ovvero quando accogliamo davvero

 

L’invenzione dell’abbraccio

ovvero

Quando accogliamo davvero

 

Ci si abbraccia per ritrovarsi interi

Alda Merini

In questi tempi di contingentamento fisico, nei quali ciascuno si è ritrovato chiuso nel proprio spazio, isolato dagli altri, abbiamo riscoperto – proprio a partire da questa fortissima mancanza – il valore dell’abbraccio, di questo stringersi l’un l’altro che, secondo Paulo Coelho, rappresenta «un gesto antico quanto l’umanità». Non a caso, sui social girano tantissimi meme su questo tema, alcuni anche molto divertenti, come la promessa che «quando tutto finirà, abbraccerò anche i pali della luce!».

Ma cosa c’è veramente dentro un abbraccio? Quale forza sconfinata si sprigiona e si apre da questo spazio chiuso tra due corpi?

download-7Proviamo a indagarlo a partire da un libro molto particolare, frutto della collaborazione di due grandi autori, lo scrittore David Grossman e l’artista Michal Rovner: un testo leggero e potente che si intreccia con figure esili e quasi evanescenti, capaci di abitare insieme uno spazio nient’affatto vuoto, ma accogliente e consapevole.

Uno spazio che non è fatto per isolare ma per accogliere, includere, ascoltare, permettere la co-costruzione di rapporti e significati: una pre-condizione che rende possibile l’incontro e la comprensione. Perché davanti alle ragioni dell’altro, ai suoi dubbi, paure, emozioni, la cura è possibile solo a partire da un’apertura, dallo spazio che si fa con le braccia e che abitiamo insieme: un abbraccio non è soltanto un ponte che gettiamo all’altro, per ridurre le distanze e accostarci a lui; è soprattutto uno spazio che gli apriamo, al di là di ogni differenza che pur permane.

La storia prende le mosse da un’osservazione che ciascun genitore sottoscriverebbe per il proprio figlio: «Sei dolcissimo e tanto carino, non c’è nessuno al mondo come te!». Una tenera carezza che, però, turba il piccolo Ben: «Davvero non c’è nessuno al mondo come me?». Per noi adulti non c’è certezza più solida e necessaria di quella di essere unici e irripetibili: su questa verità abbiamo costruito il senso autentico della nostra identità individuale e l’impossibilità di ricondurla ad altri se non a noi stessi. È, dunque, sorprendente dover fare i conti con una logica – quella dei bambini – radicalmente diversa: per loro è fondamentale, piuttosto, potersi riconoscere come parte di qualcosa di più grande, ritrovarsi in una curvatura di senso capace di accoglierli, sostenerli e spiegargli a quali condizioni (anche loro) sono!

Al nostro marcato bisogno di individualismo – condotto fino agli eccessi dell’egocentrismo – i bambini oppongono, quasi istintivamente, la logica di gruppo, l’appartenenza, l’amorevolezza del riconoscersi e del somigliarsi. Per Ben questa cosa dell’unicità e dell’irripetibilità ha il sapore sconsolato della solitudine, impedendogli di riconoscere nessun altro al mondo se non se stesso.

«[…] è una cosa bellissima che tu sia unico e speciale!», osserva la madre.

«Perché così sono solo», osserva sconsolato Ben.

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A questo punto della storia, le tre figure – Ben, la mamma e il cane –, che fino a quel momento si sono mosse leggiadre tra le pagine del libro, diventano immobili: il cane è a cuccia, in posizione di attesa, la madre è seduta, con il volto rivolvo verso il figlio, di Ben non si distinguono neppure le braccia! Tre identità ben definite, che non comunicano tra loro: ragioni che non si parlano (più). Silenzio.

Dal punto di vista di Ben, la questione assume i contorni delle più radicali indagini filosofiche: egli si mette alla ricerca senza sapere veramente dove approderà mai! Il suo turbamento finisce per rappresentare quello di ciascuno di noi: come ri-comporre le molteplici individualità che (tutti noi) siamo?

In un gioco di ombre e di contorni sfumati, la madre prova a spiegare a Ben che essere unici non vuol dire isolamento esistenziale, perché tutti siamo parte di qualcosa di più grande: ciascuno di noi potrà sempre contare su presenze amiche, sulla vicinanza affettiva, emotiva, fisica e relazionale di persone che sono lì con noi. Un concetto vertiginoso che prova a rappresentare graficamente con una spirale avvolgente: «Sono un po’ sola e sono un po’ con gli altri, e a me va bene essere un po’ così e un po’ cosà».

L’immagine potrebbe sembrare quasi consolante se quelle figure avvolte nei cerchi non ci ricordassero le vittime del Minotauro, chiuse nel labirinto di Cnosso: allo stesso modo, anche noi sembriamo persi nei nostri percorsi, incapaci di uno slancio di autentica condivisione. Dal punto di vista di Ben è una ben magra consolazione sapere che nello stesso labirinto ci sono altre persone che stanno vivendo il nostro stesso spazio e il nostro stesso tempo, se non abbiamo – e non ce l’abbiamo! – la certezza di poter comunicare con loro, non solo per scambiarci idee e opinioni, ma per condividere, nel profondo, emozioni e preoccupazioni. Per assurdo, potremmo vivere tutta la vita in compagnia di altre persone, senza conoscerle mai veramente: abbiamo, dunque, bisogno di scoprirci somiglianti, perché solo così possiamo soffocare alla radice la solitudine che genera mostri.

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Ed ecco che, d’improvviso, questo piccolo libro si fa pesantissimo: che vita potrà mai essere quella vissuta in solitudine, nelle involuzioni segrete dei nostri labirinti? Quando Ben e la madre si fermano a osservare alcune formiche che passano tra i fili d’erba, Ben vorrebbe sapere cosa pensa quella formichina che si è leggermente staccata dal gruppo: ma non può saperlo, semplicemente perché lui non è quella formica e nessuno (se non lei) potrebbe rivelarglielo. Il bambino prova allora a immaginare che le due formiche più grandi accanto a quella piccolina – che nel frattempo è rientrata nel gruppo – siano i suoi genitori, che la formichina non è stata lasciata sola (che lui non sarà mai lasciato solo!), ma non può dirlo con certezza: quando parliamo della radicalità della domanda filosofica, intendiamo qualcosa di molto simile a questa vertigine!

Per fortuna che la mamma è la mamma! E quando la domanda si fa troppo ingombrante, eccola pronta a sparigliare le carte e a immaginare nuove possibilità, a partire da quel che il titolo ci ha suggerito sin dall’inizio. L’abbraccio! In un abbraccio forte e sincero, due cuori possono ritrovarsi e, addirittura, sincronizzarsi. Poter ascoltare il battito del cuore dell’altro è segno inequivocabile che lui è lì con noi: restiamo unici, questo sì, ma aperti alla condivisione e alla comprensione autentica. Ed è quest’apertura – quella delle braccia, pronte ad accogliere per fare spazio – che rende vana ogni solitudine e, oltre ogni distanza siderale, fa congiungere pianeti e stelle.

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La mamma, alla fine, parla dell’invenzione dell’abbraccio, come se si trattasse della ruota o del televisore: se è vero che ogni invenzione ci aiuta a progredire in questo difficile cammino che è la vita, beh, allora l’abbraccio è proprio un’invenzione potente!

 

David Grossman, Michal Rovner, L’abbraccio, Mondadori, 2018