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Non ora Bernardo, ovvero ascoltiamo i piccoli

“Non ora, Bernardo” è uno di quegli albi illustrati dalla forza indiscussa che, se si ha la fortuna di incrociare, è proprio il caso di non farsi sfuggire l’occasione di sfogliarlo, di osservarlo, di leggerlo e di rileggerlo. Statene certi, niente sarà più come prima… ma a una condizione, un’unica condizione: quella di avvicinarlo disarmati, senza giudizi e pregiudizi, liberi e pronti ad ascoltare…
L’autore in questione è David Mckee (classe 1935), scrittore e illustratore britannico, già conosciuto da un vasto pubblico per “Elmer, l’elefante variopinto” o i “Tre mostri”, oltre ad una produzione che conta più di trenta libri al suo attivo. In Italia fu pubblicato per la prima volta nel 1980 da Emme edizioni con il titolo “Non rompere Giovanni”; successivamente, nel 1998, da edizioni El con il titolo “Bernardo e il mostro”; nel 2019 dalla Mondadori con “Non ora Bernardo”.


Il potere di questa storia nasce dall’azione concomitante di Parola e Illustrazione in un sodalizio perfetto capace di veicolare un messaggio forte e chiaro su una tematica importante, quanto delicata, quale il bisogno del bambino di essere ascoltato da parte del genitore, e io aggiungerei, dell’adulto.
La storia racconta uno spaccato familiare in cui padre e madre sono in casa e, talmente occupati nelle loro faccende quotidiane, da non prestare attenzione a ciò che dice Bernardo, il loro bambino, trascurandone persino le “estreme” conseguenze . Bernardo, infatti, dopo aver chiesto aiuto alla mamma e al papà perché in giardino c’è un mostro e dopo essersi sentito continuamente rispondere “non ora Bernardo”, cercherà, da solo, di affrontarlo finendo per essere mangiato.
Da qui il paradosso , il mostro stesso entrerà in casa e i genitori di Bernardo non lo riconosceranno, crederanno sia ancora il loro bambino senza prestargli nemmeno uno sguardo e il mostro incredibilmente sarà addirittura spodestato dal suo essere mostro.


Quanto male fa l’indifferenza? Negare l’ascolto a un “piccolo” produce solitudine e la solitudine ti fa essere, sempre, in balia di altro o, addirittura diventare altro da te.
La maestria di Mckee sta proprio in questo: attraverso una semplice storia, ci presenta “naturalmente” una realtà fino alle sue massime conseguenze come un monito, provocatorio ed ironico… nessun puntare il dito, nessuna retorica, niente moralismi solo tanta attenzione alla Vita che ha bisogno di cure ed interesse per crescere vigorosa e feconda.
Questa storia è un invito a pensare sempre con gli occhi aperti a ciò che ci circonda, ci richiama alla responsabilità del nostro essere adulti e ci interpella senza mezze misure, arrivando diritta al cuore e alla coscienza. Può rappresentare, se vogliamo, un’occasione importante di crescita affettiva, uno strumento originale di consapevolezza e cambiamento personale e relazionale, e, come una cartina tornasole, mostrarci dove siamo, quale direzione abbiamo, e come possiamo rendere belle e sane le nostre relazioni in famiglia e fuori.


Buona lettura!

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Il venditore di felicità, ovvero metti un pomeriggio con tre bambine…

Sulla natura stessa della felicità non si riesce a trovare un accordo,

e le spiegazioni dei saggi e del popolo sono inconciliabili.

Aristotele

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Ci sono libri che non hanno veramente bisogno di presentazione e sicuramente Il venditore di felicità (Kite) rientra a pieno titolo tra questi: non solo perché la storia è la combinazione dell’energia e della creatività di due grandi artisti – i testi geniali di Davide Calì e le illuminanti illustrazioni di Marco Somà – ma proprio per il tema che ci invita, fin dal titolo, a riflettere su un paradosso che, se fosse vero, risolverebbe secoli di discussioni filosofiche. Di che cosa è fatta la felicità? come fai a metterla in un barattolo? E ammesso che si possa farlo, puoi venderla e comprarla? e da chi la compreresti?

Ho sempre pensato che sarebbe stato entusiasmante parlarne con i bambini perché, nella loro sconfinata saggezza, avrebbero potuto offrirmi chiavi di lettura nuove e accattivanti. E quando recentemente ho avviato questa insolita formula degli appuntamenti filosofici a distanza, d’istinto ho sentito con certezza che fosse arrivato il momento di farlo!

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Ecco perché, per una volta, mi taccio e lascio la parola direttamente a loro: tre bambine che in un caldo pomeriggio di maggio si son ritrovate in una stanza virtuale a indagare la questione millenaria della natura della felicità.

G. Il piccione della storia vende la felicità: ma come fai a trovare la felicità e a metterla in un barattolo?

MS. Quando uno è felice, allora puoi provare a imprigionare la felicità in un barattolo

G. Si, ma da dove esce la felicità?

V. Dalla bocca che sorride.

MS. Dal cuore.

A. Dagli occhi. E anche dal movimento… io sono felice quando vado in bicicletta!

G. E come ci accorgiamo che una persona è felice?

MS. Lo guardo con gli occhi: se sto lì con lui, mi accorgo che è felice, perché lo sento ridere, lo vedo felice.

G. Bella questa cosa che per accorgermi della felicità di una persona, devo stare attento, devo accorgermene. Ma una persona può essere felice da sola?

A. Si, quando sto con il mio pupazzo o con i miei cagnolini.

V. Ma non è meglio se lo dici a chi vuoi bene?

G. Cioè, condividere la felicità con chi vuoi bene?

V. Si, così è doppia, perché anche l’altra persona è felice assieme a te.

G. Prima A. diceva che è felice quando va in bicicletta… quand’è che siamo felici?

MS. Quando farò il pigiama party con la mia amica!

G. Cioè, non lo hai ancora fatto? Lo devi ancora fare?

MS. Si, devo ancora farlo, ma sono sicura che quando lo farò sarò felicissima!

G. E come fai a saperlo?

MS. Con l’immaginazione! Immagino di essere felice e nel cuore so che è così!

G. Bello: posso essere felice di una cosa che ancora non è accaduta! E – ritornando alla storia – si può vendere la felicità?

V. No, puoi solo condividerla con un amico o una persona che ti vuole bene.

MS. Come fai a venderla? Non si vede la felicità!

G. Come non si vede? Abbiamo detto che noi ci accorgiamo se una persona è felice, la vediamo e la sentiamo!

MS. Si, quando una persona è felice, tu la vedi, ma la felicità che esce tu non la vedi mica.

G. Quindi, ce ne accorgiamo, la possiamo condividere, la possiamo immaginare ma non possiamo inscatolarla! Però, sappiamo dove trovarla?

A. Si, nel cuore delle persone, è lì che si trovano le emozioni.

G. E come faccio a distinguere la felicità dalle altre emozioni?

A. Quando sei felice puoi fare un disegno, così poi te lo ricordi. E puoi farlo vedere ad altre persone!

V. Puoi mettere in ordine il tuo cuore! Potresti costruire tante piccole porticine e in ognuna ci metti dentro l’amore per una persona, per il tuo cagnolino o il tuo gattino, e tutte le altre cose che ti rendono felice.

G. Insomma come una grande dispensa?

V. Tante stanzette, come un alveare.

A.  Perché se no, ti confondi.

V. Possiamo disegnare un cuore sulle porticine e dentro ci scriviamo il nome delle persone e tutte le cose…

G. Una bella immagine. Invece, la storia ci invita a immaginare tanti barattoli, ognuno con la propria etichetta… Ma, a proposito, cosa c’era nel barattolo della storia?

A.  È vuoto, il signor Topo ci semina qualcosa e ci fa crescere una pianta.

G. Come se la felicità potesse crescere…

V. Si, la felicità aumenta sempre, perché con il tempo facciamo sempre più cose belle!

G. È vero, ma ci capitano anche cose tristi…

V. E allora vuol dire che dobbiamo fare più cose belle, più cose che ci rendono felici!

E allora facciamoci capitare tante cose belle!! Non è necessario inseguirle con fatica e sudore, no, basta avere occhi per saperle cogliere e trovarle anche in un barattolo vuoto, che ci capita tra le mani proprio nel momento in cui ne avevamo bisogno.

Non esiste una strada verso la felicità.
La felicità è la strada

(Confucio)

 

Articolo di Giancarlo Chirico

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La cosa più importante, ovvero il ti esti socratico

Articolo di Giancarlo Chirico

Quando con le sognalibraie abbiamo pensato alla possibilità di tenere incontri fiabasofici a distanza le perplessità erano tante: è possibile fare filosofia guardandosi da una finestrella? Cosa sarebbe successo tenendo tutti i microfoni aperti? Quanto avrebbe pesato l’assenza fisica e la distanza, questo stare insieme in uno spazio virtuale da inventare ogni volta daccapo?

Però, era troppa la nostra voglia di ritornare ai bambini, di pensare insieme a loro il futuro prossimo, di costruire insieme a loro la filosofia per una nuova primavera, a partire dal nostro qui-e-ora. E i bambini, come sempre, sono stati fantastici!

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Il primo appuntamento de La Maggio-sofia è stato dedicato a un albo che non ha certamente bisogno di presentazioni, ovvero La cosa più importante di Margaret Wise Brown, con le illustrazioni di Leonard Weisgrad, che, a distanza di quasi sette decenni, Orecchio acerbo ha finalmente regalato al pubblico italiano. Un albo profondo, attento, generoso, capace di offrire un punto di vista sempre nuovo sulle cose, anche su oggetti comuni che – apparentemente – non sembrano avere nulla di nuovo da rivelarci: un cucchiaio, una mela, la neve…

L’operazione che ci suggeriscono gli autori è degna dell’autentica maieutica socratica, dal momento che ci invita a scoprire la radice essenziale di una cosa, a isolare dalle sue tante qualità quella più importante, quella che la definisce davvero e che racchiude il suo modo di essere nel mondo: tutte le altre caratteristiche possono esserci o no, sicuramente rendono più ricca la nostra esperienza, ci aiutano a conoscere altri aspetti della cosa ma non ci rivelano nulla della sua essenza, ovvero di quell’unica caratteristica per la quale una rosa è una rosa, una mela è una mela, la neve è la neve. Ecco come da un albo illustrato può prendere le mosse un percorso verso l’essenza, quello stesso che Socrate usava condurre con i suoi interlocutori per le strade e le piazze di Atene.

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Durante il nostro incontro “a distanza”, dopo aver letto ed esplorato l’albo in lungo e in largo, ho proposto ai bambini di aggiungervi altre pagine, le nostre pagine, indagando le caratteristiche di altre parole: domenica, mare, scuola, carezza, bacio, mamma, finestra, penna… Ne abbiamo scelto due e, per ciascuna, abbiamo ragionato sulle loro caratteristiche, provando a isolare quella più importante: e dal momento che, l’albo illustrato si compone di due codici espressivi diversi, abbiamo lavorato anche sulle illustrazioni. La terza parola, poi, l’hanno scelta loro, decidendo di descrivere il buio: e in questo gioco autenticamente filosofico la cosa più importante è che non si sono mai tirati indietro, mettendo al centro di tutto la loro genuinità, la più radicale forma di saggezza.

Lascio la parola a loro, ai bambini e, in particolare, alle illustrazioni di Vittoria e Marta (che ringrazio per averle subito condivise con me).

 

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Domenica

La cosa importante della domenica è che è festa.

Di domenica posso giocare con papà o andare al mare.

A pranzo vado a mangiare dalla nonna.

Posso dormire un po’ di più e restare a casa.

O scendere in piazza a giocare con la bici.

Ma la cosa più importante della domenica è che è festa!

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Bacio

La cosa importante del bacio è che diffondi amore: fai vedere alle persone cui vuoi bene che gli vuoi più bene di quanto pensavano.

Qualche volta è caldo e morbido, qualche altra volta è freddo e sbavoso.

Fa sempre smack.

Ti senti più forte e amato quando lo ricevi e ti senti felicissimo quando te lo dà la mamma.

Quando una persona ti piace e ti dà un bacino, ti senti svenire…

Ma la cosa più importante è che diffondi amore: fai vedere alle persone cui vuoi bene che gli vuoi più bene di quanto pensavano.

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Buio

La cosa importante del buio è che fa paura.

È di colore nero e non vedi niente.

Ci possono essere le ombre e puoi fare brutti sogni.

Per cacciarli devi farti coraggio e accendere la luce.

Se hai una torcia puoi giocare con le ombre e spaventare per gioco mamma e papà.

E se è la notte di Natale viene Babbo Natale.

Ma la cosa più importante del buio è che fa paura.

 

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L’invenzione dell’abbraccio, ovvero quando accogliamo davvero

 

L’invenzione dell’abbraccio

ovvero

Quando accogliamo davvero

 

Ci si abbraccia per ritrovarsi interi

Alda Merini

In questi tempi di contingentamento fisico, nei quali ciascuno si è ritrovato chiuso nel proprio spazio, isolato dagli altri, abbiamo riscoperto – proprio a partire da questa fortissima mancanza – il valore dell’abbraccio, di questo stringersi l’un l’altro che, secondo Paulo Coelho, rappresenta «un gesto antico quanto l’umanità». Non a caso, sui social girano tantissimi meme su questo tema, alcuni anche molto divertenti, come la promessa che «quando tutto finirà, abbraccerò anche i pali della luce!».

Ma cosa c’è veramente dentro un abbraccio? Quale forza sconfinata si sprigiona e si apre da questo spazio chiuso tra due corpi?

download-7Proviamo a indagarlo a partire da un libro molto particolare, frutto della collaborazione di due grandi autori, lo scrittore David Grossman e l’artista Michal Rovner: un testo leggero e potente che si intreccia con figure esili e quasi evanescenti, capaci di abitare insieme uno spazio nient’affatto vuoto, ma accogliente e consapevole.

Uno spazio che non è fatto per isolare ma per accogliere, includere, ascoltare, permettere la co-costruzione di rapporti e significati: una pre-condizione che rende possibile l’incontro e la comprensione. Perché davanti alle ragioni dell’altro, ai suoi dubbi, paure, emozioni, la cura è possibile solo a partire da un’apertura, dallo spazio che si fa con le braccia e che abitiamo insieme: un abbraccio non è soltanto un ponte che gettiamo all’altro, per ridurre le distanze e accostarci a lui; è soprattutto uno spazio che gli apriamo, al di là di ogni differenza che pur permane.

La storia prende le mosse da un’osservazione che ciascun genitore sottoscriverebbe per il proprio figlio: «Sei dolcissimo e tanto carino, non c’è nessuno al mondo come te!». Una tenera carezza che, però, turba il piccolo Ben: «Davvero non c’è nessuno al mondo come me?». Per noi adulti non c’è certezza più solida e necessaria di quella di essere unici e irripetibili: su questa verità abbiamo costruito il senso autentico della nostra identità individuale e l’impossibilità di ricondurla ad altri se non a noi stessi. È, dunque, sorprendente dover fare i conti con una logica – quella dei bambini – radicalmente diversa: per loro è fondamentale, piuttosto, potersi riconoscere come parte di qualcosa di più grande, ritrovarsi in una curvatura di senso capace di accoglierli, sostenerli e spiegargli a quali condizioni (anche loro) sono!

Al nostro marcato bisogno di individualismo – condotto fino agli eccessi dell’egocentrismo – i bambini oppongono, quasi istintivamente, la logica di gruppo, l’appartenenza, l’amorevolezza del riconoscersi e del somigliarsi. Per Ben questa cosa dell’unicità e dell’irripetibilità ha il sapore sconsolato della solitudine, impedendogli di riconoscere nessun altro al mondo se non se stesso.

«[…] è una cosa bellissima che tu sia unico e speciale!», osserva la madre.

«Perché così sono solo», osserva sconsolato Ben.

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A questo punto della storia, le tre figure – Ben, la mamma e il cane –, che fino a quel momento si sono mosse leggiadre tra le pagine del libro, diventano immobili: il cane è a cuccia, in posizione di attesa, la madre è seduta, con il volto rivolvo verso il figlio, di Ben non si distinguono neppure le braccia! Tre identità ben definite, che non comunicano tra loro: ragioni che non si parlano (più). Silenzio.

Dal punto di vista di Ben, la questione assume i contorni delle più radicali indagini filosofiche: egli si mette alla ricerca senza sapere veramente dove approderà mai! Il suo turbamento finisce per rappresentare quello di ciascuno di noi: come ri-comporre le molteplici individualità che (tutti noi) siamo?

In un gioco di ombre e di contorni sfumati, la madre prova a spiegare a Ben che essere unici non vuol dire isolamento esistenziale, perché tutti siamo parte di qualcosa di più grande: ciascuno di noi potrà sempre contare su presenze amiche, sulla vicinanza affettiva, emotiva, fisica e relazionale di persone che sono lì con noi. Un concetto vertiginoso che prova a rappresentare graficamente con una spirale avvolgente: «Sono un po’ sola e sono un po’ con gli altri, e a me va bene essere un po’ così e un po’ cosà».

L’immagine potrebbe sembrare quasi consolante se quelle figure avvolte nei cerchi non ci ricordassero le vittime del Minotauro, chiuse nel labirinto di Cnosso: allo stesso modo, anche noi sembriamo persi nei nostri percorsi, incapaci di uno slancio di autentica condivisione. Dal punto di vista di Ben è una ben magra consolazione sapere che nello stesso labirinto ci sono altre persone che stanno vivendo il nostro stesso spazio e il nostro stesso tempo, se non abbiamo – e non ce l’abbiamo! – la certezza di poter comunicare con loro, non solo per scambiarci idee e opinioni, ma per condividere, nel profondo, emozioni e preoccupazioni. Per assurdo, potremmo vivere tutta la vita in compagnia di altre persone, senza conoscerle mai veramente: abbiamo, dunque, bisogno di scoprirci somiglianti, perché solo così possiamo soffocare alla radice la solitudine che genera mostri.

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Ed ecco che, d’improvviso, questo piccolo libro si fa pesantissimo: che vita potrà mai essere quella vissuta in solitudine, nelle involuzioni segrete dei nostri labirinti? Quando Ben e la madre si fermano a osservare alcune formiche che passano tra i fili d’erba, Ben vorrebbe sapere cosa pensa quella formichina che si è leggermente staccata dal gruppo: ma non può saperlo, semplicemente perché lui non è quella formica e nessuno (se non lei) potrebbe rivelarglielo. Il bambino prova allora a immaginare che le due formiche più grandi accanto a quella piccolina – che nel frattempo è rientrata nel gruppo – siano i suoi genitori, che la formichina non è stata lasciata sola (che lui non sarà mai lasciato solo!), ma non può dirlo con certezza: quando parliamo della radicalità della domanda filosofica, intendiamo qualcosa di molto simile a questa vertigine!

Per fortuna che la mamma è la mamma! E quando la domanda si fa troppo ingombrante, eccola pronta a sparigliare le carte e a immaginare nuove possibilità, a partire da quel che il titolo ci ha suggerito sin dall’inizio. L’abbraccio! In un abbraccio forte e sincero, due cuori possono ritrovarsi e, addirittura, sincronizzarsi. Poter ascoltare il battito del cuore dell’altro è segno inequivocabile che lui è lì con noi: restiamo unici, questo sì, ma aperti alla condivisione e alla comprensione autentica. Ed è quest’apertura – quella delle braccia, pronte ad accogliere per fare spazio – che rende vana ogni solitudine e, oltre ogni distanza siderale, fa congiungere pianeti e stelle.

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La mamma, alla fine, parla dell’invenzione dell’abbraccio, come se si trattasse della ruota o del televisore: se è vero che ogni invenzione ci aiuta a progredire in questo difficile cammino che è la vita, beh, allora l’abbraccio è proprio un’invenzione potente!

 

David Grossman, Michal Rovner, L’abbraccio, Mondadori, 2018

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Come si chiama la felicità, ovvero La scimmia

3/4/2020

I venerdì fiabasofici

Autore: Giancarlo Chirico

La felicità dell’uomo non resta mai nello stesso punto.

Erodoto

 

In questi tempi un po’ balordi, nei quali il tempo sembra essersi fermato e i nostri pensieri tendono ad accartocciarsi intorno a un senso neanche tanto velato di paura e di inquietudine, ho riletto con rinnovata attenzione questo bellissimo albo edito da Zoolibri, scritto da Davide Calì e magicamente illustrato da Gianluca Folì.

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Un albo dallo straordinario piglio narrativo – profondo, problematico, mai banale – che si spiega lungo un bianco sempre presente, che in altri albi avrebbe fatto semplicemente da sfondo e che qui, invece, è assoluto protagonista. A partire dalla copertina: una scimmia bianca spunta dalle fronde di un albero, osservandomi a testa in giù – il rovesciamento di ogni prospettiva – e mi porge un fiore bianco… che gentile! Ma il retro della copertina racconta altri sorprendenti aspetti di questa simpatica scimmietta: scarpe all’ultima moda e una coda tutta sporca, con qualche fogliolina ancora attaccata. Possibile che questa scimmia cammini con le scarpe?

 

Siamo già dentro la storia: la scimmia si chiama Bruno, vive in uno zoo e ama osservare gli uomini che la osservano.retro Ancora una volta il ribaltamento della prospettiva, oggetto e soggetto: io guardo il mondo, ma il mondo mi osserva e muta continuamente sotto i miei stessi occhi, così come – ne dovrei pur essere conscio – io muto sotto i suoi occhi.

A Bruno piacciono i vestiti, ma – osserva giustamente la mamma – lui è una scimmia: che se ne fa dei vestiti? Basta una frase per ristabilire di colpo le tradizionali prospettive: tu sei una scimmia, fai la scimmia, sarai una scimmia, farai sempre la scimmia! Quando i pregiudizi sono così forti da impedire ogni cambiamento e disinnescare ogni trasformazione, siamo costretti ad arrenderci: Il mondo non cambierà mai! Ma Bruno è più forte dei pregiudizi: e, infatti, lo vediamo subito a testa in giù e, poi, nella doppia pagina successiva, più vicino a una famigliola umana – che, chissà come, si è ritrovata su un alto ramo dello stesso albero – che alla sua. Eh sì, perché Bruno ha imparato a capire la lingua umana e ha scoperto che una volta gli uomini erano scimmie: quindi – ah, l’infallibile logica aristoteliana! – anche lui un giorno potrà diventare una persona! I milioni di anni dell’evoluzione umana, i suoi svariati tentativi e i numerosi fallimenti, si condensano in pochi attimi e quasi annichiliscono davanti allo sguardo curioso e divertito della scimmietta che comincia a sognare: nonostante la mamma lo rassicuri che non è possibile, lui sogna, sogna forte, quasi ad alta voce! E noi lo sentiamo distintamente.

E dopo il sognare – inesorabile, puntuale, quasi liberatorio – giunge il pensare: dal mito alla filosofia, il passaggio si ripete ogni volta uguale a se stesso. Bruno comincia a ‘riflettere’: “Cosa vuol dire?”, gli chiede il padre. “È come pensare. Però più forte”, risponde Bruno. “E a cosa serve”, incalza il papà. “Non lo so, forse a niente. È solo bello”.

Giunge intrigante e inaspettato questo giudizio estetico da parte di Bruno: quando una potenza è agli albori della sua realizzazione, quando ancora non ne conosciamo tutte le possibilità, quando ne percepiamo appena il significato, la portata, le vibrazioni di fondo, non sappiamo bene in cosa, non sappiamo bene come, ma ci piace, è bello. Bruno forse non conosce ancora la parola, ma Kant gli avrebbe suggerito ‘sublime’: è l’energia intensa e primordiale con la quale il pensiero pensa se stesso, si pro-voca e si stupisce quando le cose prendono forma e si fanno più chiare e definite. La bellezza dell’atto originario del demiurgo formatore del mondo!

la-scimmia-impaginato-interno_page_11Succede che un gesto apparentemente banale – che a Bruno serve per conciliare pensieri e riflessioni – viene notato da alcune persone che vogliono fare di lui una vera e propria star. In un solo istante, si consuma subito il distacco con la propria gente: “forse diventerai una persona come desideri. Ma allora credi che sarai più felice? Ecco rifletti su questo”, gli dice il padre. Insomma, credevo di avere tra le mani un albo che parlasse di identità e, invece, il padre di Bruno solleva un’altra questione, destinata a diventare centrale: dove risiede la felicità di una persona?

Finalmente, Bruno si avvicina agli umani: diventa come loro, veste, parla e si muove come loro, impara addirittura a suonare uno strumento musicale, ed è bravissimo. Ma l’evoluzione darwiniana non può essere condensata in poche pagine: e, infatti, Bruno non è una persona, non gli assomiglia neanche lontanamente! È bravo a parlare, per essere una scimmia; veste molto elegante, per essere una scimmia; ma puzza, puzza proprio come una scimmia. E, ritornando alla questione sollevata dal padre, Bruno per la prima volta si fa dubbioso: probabilmente, una scimmia può essere felice solo in mezzo ad altre scimmie…

la-scimmia-impaginato-interno_page_04Alla fine, decide di tornare allo zoo, solo che neanche lì è felice: l’incomunicabilità con la propria specie è diventata totale, nessuno vuole sentirlo suonare, nessuno lo capisce quando parla. Ed è reciproca: a Bruno non piace essere nudo e, soprattutto, non sopporta la puzza di scimmia! Ebbene sì: Bruno sente le scimmie puzzare – proprio come le persone sentivano Bruno puzzare.

C’è questa doppia pagina che trovo geniale! Sfondo bianco, nuvoloni densi e grigi, come ricordi sfumati e sbiaditi, oppure come presenze vaghe ma minacciose: una forma di scimmia, altera, distaccata, un po’ ostile e due braccia che provano a cingere, solo che non mi sembra abbiano intenzioni amichevoli, si addensano intorno a Bruno che, a sua volta, non è affatto aperto e conciliante. Tutt’altro: si copre il naso, sente la puzza – quasi la sentiamo anche noi! – in un gesto che è di vera chiusura. Ricordo che ai corsi di teatro una delle prime cose che insegnano agli aspiranti attori è: rivolti sempre verso il pubblico e mai coprire la bocca, altrimenti la voce non arriva a nessuno! Ebbene, è evidente che Bruno non vuole proprio arrivare da nessuna parte; e non vuole che niente da fuori gli arrivi!

La creatura più sola dell’universo”: e la solitudine, sovente, genera ostilità. Ma, soprattutto, genera desolazione.

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Folì ci regala un’altra straordinaria doppia pagina: Bruno, di pelo bianco, che quasi scompare nel bianco dello sfondo (vi ricordate cosa dicevamo della funzione del bianco in questo albo?); è una figura scontornata, senza alcuna definizione, senza identità. Le mani sono intrecciate, trasmettono paura; i piedi sono spaiati: uno è nudo, l’altro ha una scarpa… Né scimmia, né umano!

Ciascuno, nella propria irripetibile unicità, è solo: il fatto è che se ci abbandonassimo a questo radicale convincimento saremmo destinati a essere infelici per sempre! Ma per fortuna il mondo sa sorprenderci: Bruno incontra Greta, una scimmia come lui che, proprio come lui, non vuole essere una scimmia, anche se non riesce a essere come un umano. Una scimmia che sa suonare, sa parlare, ama vestirsi…

E proprio nel momento in cui la storia sembra dipanarsi, succede qualcosa di molto profondo, che ci invita ancora una volta a riflettere: nell’abbraccio di Buno e Greta – dovremo ritornare su questo tema! – le due identità (che fino a quel momento si erano definite solo in termini negativi: né questo, né quello) riescono finalmente a trovare il proprio centro. Un semplice gesto diventa la chiave narrativa per rivelare qualcosa di prodigioso: il riconoscimento di sé a partire dall’altro è il fondamento di ogni sincera autoconsapevolezza ed è in grado di spazzare via ogni pregiudizio e di aprire all’autentica felicità.

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Vi ricordate quel che aveva detto il papà a Bruno? Prova a riflettere sulla felicità e sul fatto che essa possa dipendere o meno dal tuo essere scimmia o essere umano! Ebbene, Bruno ora ha la risposta: “so di essere stato una scimmia” – e ora non lo sono più – “e so di non essere una persona” – e ora so che non lo sarò mai veramente! Eppure, da questa doppia negazione, che in altri momenti sarebbe stata fonte di angoscia, prendono forma tutte le mie possibilità e la mia felicità si scopre totalmente libera (e la mia libertà finalmente felice!). E questo prodigio ha solo un nome: Bruno!

Calì, G. Folì, La scimmia, Zoolibri 2014