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L’invenzione dell’abbraccio, ovvero quando accogliamo davvero

 

L’invenzione dell’abbraccio

ovvero

Quando accogliamo davvero

 

Ci si abbraccia per ritrovarsi interi

Alda Merini

In questi tempi di contingentamento fisico, nei quali ciascuno si è ritrovato chiuso nel proprio spazio, isolato dagli altri, abbiamo riscoperto – proprio a partire da questa fortissima mancanza – il valore dell’abbraccio, di questo stringersi l’un l’altro che, secondo Paulo Coelho, rappresenta «un gesto antico quanto l’umanità». Non a caso, sui social girano tantissimi meme su questo tema, alcuni anche molto divertenti, come la promessa che «quando tutto finirà, abbraccerò anche i pali della luce!».

Ma cosa c’è veramente dentro un abbraccio? Quale forza sconfinata si sprigiona e si apre da questo spazio chiuso tra due corpi?

download-7Proviamo a indagarlo a partire da un libro molto particolare, frutto della collaborazione di due grandi autori, lo scrittore David Grossman e l’artista Michal Rovner: un testo leggero e potente che si intreccia con figure esili e quasi evanescenti, capaci di abitare insieme uno spazio nient’affatto vuoto, ma accogliente e consapevole.

Uno spazio che non è fatto per isolare ma per accogliere, includere, ascoltare, permettere la co-costruzione di rapporti e significati: una pre-condizione che rende possibile l’incontro e la comprensione. Perché davanti alle ragioni dell’altro, ai suoi dubbi, paure, emozioni, la cura è possibile solo a partire da un’apertura, dallo spazio che si fa con le braccia e che abitiamo insieme: un abbraccio non è soltanto un ponte che gettiamo all’altro, per ridurre le distanze e accostarci a lui; è soprattutto uno spazio che gli apriamo, al di là di ogni differenza che pur permane.

La storia prende le mosse da un’osservazione che ciascun genitore sottoscriverebbe per il proprio figlio: «Sei dolcissimo e tanto carino, non c’è nessuno al mondo come te!». Una tenera carezza che, però, turba il piccolo Ben: «Davvero non c’è nessuno al mondo come me?». Per noi adulti non c’è certezza più solida e necessaria di quella di essere unici e irripetibili: su questa verità abbiamo costruito il senso autentico della nostra identità individuale e l’impossibilità di ricondurla ad altri se non a noi stessi. È, dunque, sorprendente dover fare i conti con una logica – quella dei bambini – radicalmente diversa: per loro è fondamentale, piuttosto, potersi riconoscere come parte di qualcosa di più grande, ritrovarsi in una curvatura di senso capace di accoglierli, sostenerli e spiegargli a quali condizioni (anche loro) sono!

Al nostro marcato bisogno di individualismo – condotto fino agli eccessi dell’egocentrismo – i bambini oppongono, quasi istintivamente, la logica di gruppo, l’appartenenza, l’amorevolezza del riconoscersi e del somigliarsi. Per Ben questa cosa dell’unicità e dell’irripetibilità ha il sapore sconsolato della solitudine, impedendogli di riconoscere nessun altro al mondo se non se stesso.

«[…] è una cosa bellissima che tu sia unico e speciale!», osserva la madre.

«Perché così sono solo», osserva sconsolato Ben.

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A questo punto della storia, le tre figure – Ben, la mamma e il cane –, che fino a quel momento si sono mosse leggiadre tra le pagine del libro, diventano immobili: il cane è a cuccia, in posizione di attesa, la madre è seduta, con il volto rivolvo verso il figlio, di Ben non si distinguono neppure le braccia! Tre identità ben definite, che non comunicano tra loro: ragioni che non si parlano (più). Silenzio.

Dal punto di vista di Ben, la questione assume i contorni delle più radicali indagini filosofiche: egli si mette alla ricerca senza sapere veramente dove approderà mai! Il suo turbamento finisce per rappresentare quello di ciascuno di noi: come ri-comporre le molteplici individualità che (tutti noi) siamo?

In un gioco di ombre e di contorni sfumati, la madre prova a spiegare a Ben che essere unici non vuol dire isolamento esistenziale, perché tutti siamo parte di qualcosa di più grande: ciascuno di noi potrà sempre contare su presenze amiche, sulla vicinanza affettiva, emotiva, fisica e relazionale di persone che sono lì con noi. Un concetto vertiginoso che prova a rappresentare graficamente con una spirale avvolgente: «Sono un po’ sola e sono un po’ con gli altri, e a me va bene essere un po’ così e un po’ cosà».

L’immagine potrebbe sembrare quasi consolante se quelle figure avvolte nei cerchi non ci ricordassero le vittime del Minotauro, chiuse nel labirinto di Cnosso: allo stesso modo, anche noi sembriamo persi nei nostri percorsi, incapaci di uno slancio di autentica condivisione. Dal punto di vista di Ben è una ben magra consolazione sapere che nello stesso labirinto ci sono altre persone che stanno vivendo il nostro stesso spazio e il nostro stesso tempo, se non abbiamo – e non ce l’abbiamo! – la certezza di poter comunicare con loro, non solo per scambiarci idee e opinioni, ma per condividere, nel profondo, emozioni e preoccupazioni. Per assurdo, potremmo vivere tutta la vita in compagnia di altre persone, senza conoscerle mai veramente: abbiamo, dunque, bisogno di scoprirci somiglianti, perché solo così possiamo soffocare alla radice la solitudine che genera mostri.

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Ed ecco che, d’improvviso, questo piccolo libro si fa pesantissimo: che vita potrà mai essere quella vissuta in solitudine, nelle involuzioni segrete dei nostri labirinti? Quando Ben e la madre si fermano a osservare alcune formiche che passano tra i fili d’erba, Ben vorrebbe sapere cosa pensa quella formichina che si è leggermente staccata dal gruppo: ma non può saperlo, semplicemente perché lui non è quella formica e nessuno (se non lei) potrebbe rivelarglielo. Il bambino prova allora a immaginare che le due formiche più grandi accanto a quella piccolina – che nel frattempo è rientrata nel gruppo – siano i suoi genitori, che la formichina non è stata lasciata sola (che lui non sarà mai lasciato solo!), ma non può dirlo con certezza: quando parliamo della radicalità della domanda filosofica, intendiamo qualcosa di molto simile a questa vertigine!

Per fortuna che la mamma è la mamma! E quando la domanda si fa troppo ingombrante, eccola pronta a sparigliare le carte e a immaginare nuove possibilità, a partire da quel che il titolo ci ha suggerito sin dall’inizio. L’abbraccio! In un abbraccio forte e sincero, due cuori possono ritrovarsi e, addirittura, sincronizzarsi. Poter ascoltare il battito del cuore dell’altro è segno inequivocabile che lui è lì con noi: restiamo unici, questo sì, ma aperti alla condivisione e alla comprensione autentica. Ed è quest’apertura – quella delle braccia, pronte ad accogliere per fare spazio – che rende vana ogni solitudine e, oltre ogni distanza siderale, fa congiungere pianeti e stelle.

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La mamma, alla fine, parla dell’invenzione dell’abbraccio, come se si trattasse della ruota o del televisore: se è vero che ogni invenzione ci aiuta a progredire in questo difficile cammino che è la vita, beh, allora l’abbraccio è proprio un’invenzione potente!

 

David Grossman, Michal Rovner, L’abbraccio, Mondadori, 2018